Storia

Passaggio in Brianza, improvvisamente la storia

29 Maggio 2015

Passo sempre, provenendo da Carate Brianza dove mi reco spesso per ragioni familiari, da Triuggio   per raggiungere da lì,  attraversando  Arcore, la strada che mi porta a casa.  Ieri giunto a Canonica, una settecentesca frazione di Triuggio, sul Lambro, davvero suggestiva, e giunto all’altezza della stupenda Villa Taverna, ho deciso,  piuttosto che proseguire dritto, di fare una breve diramazione sulla sinistra  per Tregasio in direzione Villa Sacro Cuore e da lì riprendere poi la strada per Arcore. Chi è pratico della zona sa che  lungo questa strada che porta fino a Besana, lungo la via Stefano Jacini e sulla destra, poco prima della Villa Sacro Cuore, si apre il prospetto principale di un’altra  bella villa,  residenza prima dei conti Durini e poi dei conti Jacini(nella foto in alto).

Stefano Jacini, «la mente più lucida della politica italiana dopo Cavour e Sella», secondo il sintetico  giudizio di Piero Gobetti,  fu uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “Destra storica” italiana (1861- 1876)  ossia la migliore classe dirigente che mai abbia avuto il nostro Paese. Che compulsiate testi di autori di destra (liberale) o di sinistra (anche marxista) difficilmente troverete men che lodi e alta considerazione verso questi uomini: Cavour, Ricasoli, Minghetti, Lanza, Menabrea, Lamarmora, Jacini, Sella, ad eccezione che per Quintino Sella e soprattutto a causa dell’odiosa “tassa sul macinato” che pure aveva uno scopo altissimo: il pareggio di bilancio (il risanamento dei conti pubblici è storia vecchia come si vede) ed ebbe il merito secondo lo storico liberale etneo  Rosario Romeo di costituire una sorta di «accumulazione originaria del capitale» (formula di Marx) necessaria per il successivo take off economico. Insomma: “stiamo male tutti adesso per stare un po’ meglio tutti domani”.  Unanime resta tuttavia il giudizio degli storici sul fatto che questa classe dirigente  seppe anteporre  gli interessi nazionali a quelli della propria classe sociale (borghesia o aristocrazia perlopiù agraria) e che  da allora non se ne vide più sul proscenio della politica nazionale una eguale.

Stefano Jacini non nacque nobile, ma all’interno di una famiglia di proprietari terrieri che aveva fatto investimenti mobiliari in società che commerciavano seta. Giovanissimo venne inviato in un collegio vicino Berna ove imparò il tedesco. Fin dai primi anni, dopo la laurea in giurisprudenza e lunghi viaggi all’estero, soprattutto nell’Europa fredda, si interessò di questioni relative a tecniche agronomiche e alla produttività delle aziende agricole  in genere.  Nel 1851 prese parte al concorso per un lavoro sulle condizioni economiche e morali delle popolazioni agricole della Lombardia indetto dalla “Società d’incoraggiamento delle scienze, lettere ed arti” di Milano che  pubblicò successivamente in varie edizioni con l titolo La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia. Le esperienze e gli interessi maturati nella regione di nascita  gli furono utilissimi quando venne eletto senatore del Regno.  I manuali di storia ricordano che a Stefano Jacini si deve la direzione della  celebre Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia, esito di una inchiesta parlamentare (1881-1890 ) promossa dalla Sinistra.  Quando morì « il Corriere della sera gli dedicò due articoli, uno laudativo, uno piuttosto critico, nel quale si diceva che egli aveva assistito allo svolgimento “incessante della società moderna senza prendervi parte, anzi rifuggendola”: una interpretazione che forse andava corretta nel senso ch’egli era stato semmai un “politico alieno dalla politica”, uno spirito capace di vedere le cose con razionalità lontano dal volgare empirismo, un conservatore capace di un sincero spirito liberale e di un atteggiamento riformista», come ricorda il dizionario biografico Treccani. La sua azione politica  fu razionale e  pratico-politica insomma, oggi diremmo non ideologica.

Le mie triangolazioni mentali vanno all’aristocrazia siciliana.  Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari (1719- 1786) si segnalò per aver scritto qualche libello sui “vasi murrini” e “ragionamenti sopra gli antichi ornamenti e  trastulli de’  bambini”, mentre il più nobile dei siciliani in letteratura, il Gattopardo, è ritratto a macerarsi nella contemplazione degli spazi siderali dove credeva di incontrate prima o poi la corteggiata morte. Quando  penso alla nobiltà siciliana vengo assalito dallo sconforto e la mia mente va al ritratto spietato e veritiero del ceto nobiliare che ne fa  De Roberto nei Vicerè   ma anche a un passo graffiante della Lunga vita di Marianna Ucrìa di  Dacia Maraini (che di una nobile siciliana è figlia) ove si può leggere: «Per molti nobili […] vissuti e maturati nel secolo passato, i pensieri sistematici hanno qualcosa di ignobile, di volgare. Il confronto con altre intelligenze, altre idee, è considerato per principio una resa. I plebei pensano come gruppo o come folla, un nobile è solo e di questa solitudine è costituita  la sua gloria e il suo ardimento».  Infine penso al registro stilistico del “grottesco triste”  e alla faccia di Leopoldo Trieste in Divorzio all’italiana di Germi, dove il baruneddu di turno è così spiantato che non ha neanche i soldi per ricoprire il varco dei denti incisivi saltati e non gli riesce neanche  di impiccarsi nel salone del palazzo avito  perché cede la trave dove ha avvoltolato la corda.

Il confronto tra i due ceti dirigenti è impietoso. Ritorna utile pertanto oltre che confermata l’ipotesi di Emanuele Felice in Perché il Sud è rimasto indietro, ossia: istituzioni inclusive (si pensi a tutte le società di incoraggiamento delle scienze ed arti) e modernizzazione attiva al Nord, e istituzioni estrattive e modernizzazione passiva al Sud. Il conte Jacini da una parte il baruneddu dall’altra;  per dirla con il sermo cotidianus: non c’è partita.

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