Storia

Ordine del giorno: sterminio. Wannsee, 20 gennaio 1942

20 Gennaio 2022

Ci sono fatti storici di cui la ricerca storica ci ha fornito tutti gli elementi per sapere e per capire.

Fatti che stentano a entrare nel sapere comune, perché il loro ingresso nel sapere condiviso non è solo un particolare di un quadro complessivo, ma la sua consapevolezza obbliga a ridefinire molti elementi di quel quadro.

Wannsee 20 gennaio 1942, è un buon esempio. Ricostruire la scena di quel giorno e di quell’incontro è tanto utile quanto significativo.

Prima, però vorrei partire da un testo.

3 luglio 1942, venerdì sera, le otto e mezzo. Sono sempre seduta alla medesima scrivania, ma a questo punto dovrei tirare una riga e proseguire con un tono diverso. Dobbiamo trovare posto per una nuova certezza: vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere”.

Così scrive nel suo diario Etty Hillesum..

Le parole sono sempre importanti, specie se connesse alla data in cui quelle parole vengono dette o scritte. Non riguardano solo chi parla o scrive, quanto chi, dopo, con quelle parole deve o vuole fare i conti.

L’importanza per me sta nel tempo reale di quella scrittura.

Nelle settimane successive iniziano i grandi rastrellamenti nelle città europee occidentali sotto occupazione nazista  (quello scenograficamente che è entrato nell’immaginario pubblico è quello del 16-17 luglio 1942 a Parigi, più noto come «la rafle du Vel d’hiv»), una scena che in Europa Orientale e nella Russia occupata è ormai scena comune almeno da luglio 1941.

Perché è importante questa nota di Etty Hillesum? Non per ciò che anticipa, ma perché indica che cosa si poteva capire in tempo reale. O forse, meglio, che cosa si era disposti a mettere in conto di fronte al farsi quotidiano della realtà. In breve Etty Hillesum non solo comprende che cosa sta per succedere, ma comprende che sta già succedendo e che non occorre avere un’informazione o essere in possesso di documenti che provino le intenzioni. Quelle intenzioni stanno nei fatti che per comprenderle si tratta di prendere la misura dei fatti.

La premessa di passaggio di quei fatti è una data e un luogo che Hillesum non conosce e che non è di dominio pubblico ma che sancisce nei fatti quel passaggio rende comprensibile molte cose. Quella data è il 20 gennaio 1942 e il luogo è Wannsee.

Intorno alla conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942) si è diffuso un mito: il fatto che improvvisamente, quel giorno, nei pressi di Berlino, nel sobborgo di Zehlendorf, in una tenuta con villa, in una stanza di medie proporzioni con ampie finestre sul parco, in un habitat di relax e uno scenario da «fine settimana», tredici persone come risulta dall’unico documento scritto ritrovato che riporta sia i partecipanti che lo svolgimento della riunione (il documento è  leggibile qui). Il documento, pubblicato più volte – da ultimo è pubblicato da Peter Longerich nel suo Verso la soluzione finale, Einaudi). In quella riunione i partecipanti decidono il varo della soluzione finale della questione ebraica. Anzi inventano e sanciscono le procedure di sterminio.

Questa conclusione è vera nei fatti ma produce un’immagine falsa.

Provo a spiegare perché.

Intendiamoci: la data è quella corretta; il luogo è proprio quello; la quantità di persone è quella, ma questo non elimina il falso perché sotto questa forma sembrerebbe legittimo pensare – o autorizzare a pensare – che tutto quanto era avvenuto fino a quel momento era sostanzialmente rubricabile entro una dimensione di duro regime, ma non secondo una drastica e violenta politica di sterminio.

E a questo proposito è sufficiente analizzare il comportamento dei gruppi di azione già attivi in Polonia nel 1940 comunque estremamente solerti dal momento dell’invasione dell’Urss (giugno 1941), il vero momento di inaugurazione di sterminio sistematico. Su questo lo storico Christopher Browning ha dato gli elementi essenziali per rimuovere eventuali fraintendimenti o amnesie.

Dunque se lo sterminio è già in atto, se sostanzialmente non incontra opposizioni e dubbi di sorta nella macchina militare e politica del nazismo che cosa accade a Wannsee? Perché nonostante tutto, quel momento costituisce un passaggio essenziale della dinamica dello sterminio?

Riconsideriamo il documento che Logerich pubblica e discute nel suo libro. Un testo su cui già anni fa Kurt Pätzold e Erika Schwarz avevano richiamato l’attenzione e avevano proposto una lettura profonda dell’evento “Conferenza di Wannsee”.

Di quel documento colpiscono varie cose. Soprattutto due.

Prima questione. Fino a che punto si tratta di sterminare. Il tema non è se lasciare in vita qualche ebreo, ma di definire a partire da quale modello di albero genealogico non si è più ebrei e si rientra in quella categoria di “mezzi ebrei” per i quali è prevedibile la sterilizzazione o, al più, la lenta inclusione nelle fasce inferiori della gerarchia razziale.

La discussione sui processi di inclusione o di esclusione dall’eliminazione fisica è molto interessante e consente di capire molte cose sulla dimensione dell’espressione “famiglia allargata” e sulle pratiche di inclusione nella “famiglia” che distinguono tra politiche di accoglienza e politiche di non accoglienza, ovvero fino a che punto si fermi il concetto di famiglia in un caso e fino a che punto invece quel concetto sia a maglie larghe.

Seconda questione. La tabella che compare a pagina 6 del documento (è quella che abbiamo utilizzato come immagine di copertina) in in cui viene indicata la geografia del progetto di stermino, ovvero quali siano le realtà territoriali interessate.

Tra queste compaiono anche aree che ancora, alla data del 20 gennaio 1942, non sono occupate dall’esercito tedesco (per esempio, Regno Unito, Irlanda, Spagna, Portogallo, Turchia oppure tutta la Russia). Ma sono indicate anche realtà alleate ma non controllate dall’esercito tedesco. Per esempio Italia, Slovacchia, tra le altre.

Quella tabella esprime un dato evidente: Wannsee allude alla fisionomia che l’Europa – e possibilmente l’intero pianeta – dovrebbe assumere nel progetto nazista una volta finita la guerra. In breve il tema non è lo scenario di guerra, ma quale dopoguerra si sta progettando, con quali regole lo si pensa, con quali procedure lo si rende realizzabile.

Questa procedura è interessante non tanto per il linguaggio esoterico o allusivo, comunque mai esplicito, con cui viene ratificata questa decisione o comunque si denomina la eliminazione degli ebrei d’Europa (nei documenti il termine usato è quello di “evacuazione” che forse per molti può essere associato a un provvedimento di tipo militare, ma che stante il vocabolario razzistico-biologico e geografico-razzistico del nazismo è traducibile solo all’interno di un linguaggio clinico, ovvero di espulsione dal corpo fisico della nazione, e di sparizione da uno spazio geografico dato), ma per la estrema rapidità con cui la si discute.

In un qualche modo, si potrebbe osservare, il mito della mostruosità si combina con l’immagine della assoluta inessenzialità. Forse questa può anche apparire un’osservazione irriverente allorché si misuri la distanza tra una scena di salotto qualsiasi quale sembra emergere dai verbali di Wannsee e le file di cadaveri e di treni della morte che hanno per tre anni attraversato e connotato la carta geografica d’Europa nel suo cuore.

Vorrei cercare di sottolineare nella forma più semplice, ma anche più lapidaria, che cosa suscita la lettura del verbale della riunione del 20 gennaio 1942.

Per rendere immediato ciò che intendo dire mi servirò di una fonte parallela.

Nel testo della sua deposizione nei mesi dell’istruttoria, Adolf Eichmann così descrive l’evento Wannsee: “Heydrich voleva mostrare che il suo potere era aumentato ed era diventato il padrone di tutti gli ebrei. Io partecipavo per la prima volta a una seduta di alti funzionari e segretari di stato e notai come tutto si svolgesse con grande gentilezza e amicizia. Poi fu offerto del cognac e la riunione terminò. Questa fu più o meno la conferenza di Wannsee” (riportato in Sergio Minerbi, Eichmann. Diario di un processo, Luni 2000, p. 47).

Di tutta la riunione Eichmann ricorda sostanzialmente il cognac e un clima cordiale. Si potrebbe dire di convivialità. Questo dato può infastidire un lettore sensibile. Ma appunto questo fatto ha un valore altamente significativo e non sminuente: Wannsee più che un evento in sé è una procedura di passaggio. Si potrebbe esser indotti a ritenere che ciò diminuisca la dimensione del terrore. È vero esattamente l’opposto. Proprio per questa sua apparente insignificanza, Wannsee costituisce l’atto di accusa più patente a un meccanismo culturale e politico.

Nella pratica sterminazionista del nazismo non c’è una data al di qua della quale siamo dentro un sistema politico duro e autoritario e al di là della quale entriamo nello scenario apocalittico.

Non c’è un momento nella storia delle pratiche politiche in cui si dà una metamorfosi repentina dei sistemi politici, della loro natura, del modo di intendere il meccanismo di controllo governanti/governati o meglio, nel caso dei regimi totalitari, quello schiavi/sudditi/padroni. I regimi politici certamente, nel tempo della loro durata, modificano le loro procedure di azione e di governo, ma queste comunque rispondono a principi fondativi costanti che concernono l’identità tra profilo ideologico e pratiche politiche perseguite per conseguirlo e realizzarlo.

Questo non significa che non si dia problema storico nell’analisi della storia concreta dei regimi politici. I regimi politici non sono come Minerva che nasce già formata compiutamente dalla testa di Giove. Hanno una storia e spesso hanno una trasformazione che mette in contrasto principi ideologici e fondativi con pratiche di governo. Laddove si produce differenza o distanza o comunque distonia tra queste due sfere dell’azione umana in politica noi dobbiamo osservare e confrontare i momenti di passaggio e comprendere dove quegli snodi evenemenziali, politici, culturali mettano in discussione i fondamenti teorici e politici del sistema politico dominante e vigente.

Ma laddove le procedure non determinano fratture noi dobbiamo considerare non che niente sia successo e che ci sia indifferenzialismo nel tempo di un regime politico, ma prendere atto che in quel regime politico, nei fondamenti ideologici che lo connotano, nelle pratiche politiche che lo rendono funzionante, nelle burocrazie che trasformano una decisione in pratica diffusa e applicata, si esprimono una volontà e una cultura che sono parte di una pratica sociale per la quale le cose avvengono.

Wannsee non era scritta in nessun programma e nessuno scadenzario, ma faceva parte di una procedura. Non si parla in quella sede di treni che devono partire e arrivare, ma non è necessario. Tutti sanno benissimo di che si parla. Questo silenzio, o, meglio, questa assoluta irrilevanza di precisare l’oggetto della discussione è l’indicatore più significativo di una pratica politica concorde e condivisa.

Una discussione che stando al resoconto della riunione stilato da Eichmann al termine della riunione e approvato dal suo superiore Heydrich, non include una decisione formale, ma rinvia a un “idemsentire” si sarebbe detto nel politichese italico degli scorsi anni, che non trova nessuna opposizione. E che infatti, non solo mette rapidamente in moto una macchina di morte, ma rende funzionali tutti i passaggi burocratici, operativi, organizzativi ancora incerti o comunque poco coordinati, ma già funzionanti almeno dal giugno 1941, ovvero dal momento dell’invasione dell’Urss.

A Wannsee, dunque non viene deciso come si muore, ma viene sostanzialmente ratificato chi muore, chi deve morire e quanto estesa (geograficamente) deve essere l’area continentale interessata da quello sterminio. Nel verbale riassuntivo di quella riunione, l’unico documento che rimane, riunione che, anche questo è un dato significativo, non occupa tutta la giornata, ma si risolve in 90 minuti tra saluti preliminari, offerta di caffè e momenti di intrattenimento, c’è una lunga lista di ebrei da uccidere che riguarda tutti i paesi d’Europa, ma anche alcuni paesi dell’area mediterranea dell’Africa, ovviamente il Medio Oriente, fino a pensare di estendere la propria azione al di là dell’Atlantico

In breve il tema è fino a che punto si tratta di sterminare e, insieme, chi si assume la responsabilità (l’onere, ma nel linguaggio di quei convenuti soprattutto l’onore) di mettere in atto e di portare a compimento quella missione: lo sterminio.

Perché questa dinamica allora va discussa se tutti i partecipanti sono d’accordo?

Perché il problema non è chi uccidere, ma in quale momento farlo.

Lo scontro è tra la direzione politica rappresentata dall’Ufficio centrale della sicurezza del Reich, rappresentato da Reinhardt Heydrich (colui che ha convocato la riunione) e da Adolf Eichmann, gli alti gradi delle strutture dell’Esercito, il responsabile del Governatorato generale (ovvero la zona conquistata a Est tra Germani a Urss) gli alti rappresentato deli ministeri (Esteri, Interni, Giustizia).

L’Ufficio centrale della sicurezza del Reich punta a una politica di immediatezza che soprattutto miri a sradicare la presenza ebraica su tutto il territorio amministrato da Reich (e dunque non solo Est Europa , ma anche Europa Occidentale, Europa balcanica, paesi scandinavi, per poi riservare un secondo momento ai paesi ancora non controllati (tra questi: Italia, Gran Bretagna, Turchia, Spagna, Svizzera), gli altri sono più scettici e intendono agire solo nei territori già conquistati e con ritmi meno accelerati.

Wannsee, tuttavia, ha un significato che va letto anche rispetto al conflitto di potere interno al regime. Non chi deve morire e come è il vero nodo politico della riunione del 20 gennaio 1942, ma chi sono i poteri e le figure che si candidano a poteri forti. Il fatto che Heydrich convochi una riunione, che un intero ufficio si mobiliti per organizzare quella giornata, che tutti i dirigenti intermedi e i quadri altri della gerarchia partecipino alla riunione, che egli la apra e la chiuda indica dove si colloca il potere di decidere in quel momento e chi sia la voce del potere.

In breve a Wannsee di misura un confronto tra gerarchi e uno solo ne esce vincente: il padrone di casa.

Questo sostanzialmente indica una funzione della riunione, banale e allo stesso tempo terrifica: non la vita o la morte sono importanti a Wannsee, ma il valore di carta di scambio che ha comunicare e amministrare la questione ebraica nella retorica del nazismo: allo stesso tempo un ossessione del potere e anche la retorica persuasiva per dimostrare la propria ascesa politica all’interno di un regime che ha fatto della guerra sterminativa un luogo fondativo della propria scommessa con la storia e della propria identità. Alla fine questo è ciò che rende Wannsee banale, una tappa all’interno di un percorso che né lo accelera né lo devia dal suo corso, e al tempo stesso densamente simbolico

La Conferenza si chiude senza una decisione sostanziale sul quando, ma diventa ufficiale il come: dalle fucilazioni di massa si passa allo sterminio col gas. Il 15 febbraio 1942 un primo convoglio di ebrei in partenza dalla Slesia arriva Auschwitz per la gassazione immediata. È un test. Nelle stesse settimane si allestiscono i luoghi dello sterminio: Chełmno, Bełzec, Sobibór, Treblinka.

Ancora la svolta vera della guerra non c’è (ci sarà nei fatti nel secondo semestre del 1942).

Lo sterminio si avvia lentamente, ma la svolta della guerra e la percezione che inizia il ripiegamento modificano le priorità. Quelli che a Wannsee erano più scettici nei tempi, diventano più solerti; quelli che erano più radicali nella quantità pensano che importante è il risultato che si può portare a casa subito.

A parrire dall’estate 1942 raggungere l’obiettivo della guerra per l’ideologia nazista non coincide più con è l’espansione territoriale (ormai impossibile). Ora l’obiettvo della guyerra diventra  l’eliminazione degli ebrei. Del resto non si capirebbe questa priorità guardando all’andamento stesso della guerra e dello sterminio: conseguire il massimo numerico degli sterminati (e dunque realizzare l’obiettivo strategico e ideologico) a prescindere dal successo militare che, evidentemente, diventa secondario, comunque non essenziale.

Ovvero per i nazisti, la guerra, non fosse che per realizzare queto obiettivo, vale ancora la pena.

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