Scuola
Oltre il liceo classico: a cosa servono davvero gli studi umanistici
“Quando uno studente compie una ricerca […] affrontando un problema che gli interessa identificando le fonti adeguate e gestendone al meglio le informazioni, ponendo una domanda di importanza riconosciuta e rispondendovi in modo chiaro e persuasivo, con l’aiuto di un professionista preparato che si interessa sinceramente al suo lavoro – allora non sta diventando semplicemente un pedante o il produttore di una conoscenza inutile. Sta facendo ciò che si si occupa di humanities ha sempre fatto: matura una disposizione d’animo e uno spirito che potrà applicare in qualunque campo, e che lo renderà un pensatore indipendente e analitico, una persona capace di riflettere criticamente anche su se stesso.”
Così hanno scritto pochi giorni fa Anthony Grafton, docente di Storia a Princeton, e James Grossman, dirigente dell’American Historical Association, in un loro contributo sulla prestigiosa testata culturale The American Scholar in cui rispondono agli ennesimi attacchi provenienti dalla pubblicistica statunitense sulla presunta “inutilità” dei percorsi di formazione umanistica. Come suo solito, Grafton ha ispirato una difesa che appare più che altro un convinto contrattacco, in cui si reclama l’insostituibile importanza dello studio della storia e della cultura letteraria, filosofica, artistica del passato non come semplice curiosità antiquaria, ma come passaggio fondamentale per imparare a pensare con la propria testa, e per evitare che “il mondo reale” bolli come puramente (e inutilmente) “accademica” ogni tensione alla complessità e alla sua comprensione, in nome di una cultura condivisa che appiattisca ogni dato e ogni elemento in una semplicità monodimensionale e, in ultima analisi, ingannevole.
Riflettere sulle dinamiche attraverso cui si sono formati nel tempo i prodotti culturali che oggi ci circondano e attraverso i quali comprendiamo la realtà è indispensabile per sapere che le interpretazioni che i mezzi di comunicazione ci propongono hanno un’origine e degli scopi, e che quindi devono essere destrutturate e comprese nei loro elementi costitutivi prima di essere assimilate acriticamente; che ogni azione sociale o proposta politica si pone in un contesto, all’interno del quale deve essere soppesata e compresa; che le idee e i giudizi che oggi ci sembrano ovvi perché costitutivi del nostro modo di pensare hanno un inizio, hanno attraversato epoche assai diverse dalla nostra, sono stati soggetti a modifiche e a ricostituzioni che non li rendono mai “naturali” e quindi accettabili senza supplementi d’indagine; che abbandonare questo modo di ragionare e di agire è un impoverimento per ogni individuo e per la società nel suo insieme; che la sottrazione di questi schermi culturali che ci garantiscono la possibilità di dubitare e riesaminare in continue prove d’appello il mondo che ci circonda rischia di metterci semplicemente in balia di chi riesce a diffondere il suo messaggio con maggiore potenza o con le parole più belle.
Lo studioso di Princeton non è nuovo all’affermazione perentoria di questo valore universale del suo campo di studi privilegiato. Già all’inizio del 2011, nell’editoriale con cui inaugurava sul magazine dell’American Historical Association Perspective on History la sua presidenza dell’associazione, il docente di Princeton era stato ancora più esplicito nel rintuzzare l'”attacco” che politica e media riservavano da tempo ai “parassiti” che si occupano di “discipline volte a creare a insegnare strumenti qualitativi per l’interpretazione del passato e del presente, dell’arte e della letteratura, della religione e della società”:
“Studiando la storia al meglio delle nostre possibilità, noi ricerchiamo una conoscenza esatta e precisa, e insegniamo ai nostri studenti, a tutti i livelli, a fare lo stesso. Garantiamo la sopravvivenza di un modello d’indagine intellettualmente onesto e basato su materiali di prima mano. Questa severa formazione ai principi della ricerca della conoscenza è importante: è importante più che mai nell’attuale società dei media, nella quale le bugie sul passato, come le bugie sul presente, viaggiano veloci come mai prima.”
Nei suoi interventi, Grafton ha sempre cercato di porre al centro un elemento imprescindibile nella questione del ruolo degli studi umanistici in una “mappa dei saperi” contemporanea: il loro legame indissolubile con la formazione e con la pratica didattica. Le attività di riflessione e di ricostruzione documentaria hanno una ragion d’essere in primo luogo come contributo all’educazione a un approccio al mondo capace di cogliere tendenze di fondo, sfumature e complessità, sia sul piano diretto (attraverso i risultati dell’azione di ricerca e il loro apporto alla conoscenza del passato), sia soprattutto su quello indiretto (come offerta ai discenti di un modello di lavoro, le cui procedure essenziali potranno essere ripetute anche al di là dell’ambiente protetto dell’accademia, fino a diventare un esempio di analisi dell’universo sociale in cui siamo immersi ogni giorno).
Detto in altri termini, a differenza di quanto accade in altri settori, i prodotti della ricerca storica avranno valore solo se messi in circolo nella cultura diffusa e nella coscienza collettiva. Una medicina che cura una grave malattia, o un sistema operativo superefficiente, saranno utili e apprezzati anche se le persone “comuni” non avranno idea di come sono stati creati e di come funzionano. Un prodotto nato come contributo al sapere umanistico dovrà camminare sulle gambe del maggior numero possibile di persone.
Questo spunto dovrebbe costituire un contributo su cui riflettere anche per noi italiani, che nel dibattito sul tema continuiamo a vivere un atteggiamento pericolosamente schizofrenico. Da un lato, il tema dell’efficacia dei percorsi didattici e del loro impatto sulla formazione generale degli studenti è piuttosto vivace per quanto riguarda la scuola primaria e secondaria, anche con lo stimolo de La buona scuola. Dall’altro, resta estranea a una riflessione sugli equilibri didattici tra cicli scolastici e sui contenuti condivisi per una soddisfacente formazione generale l’università, sempre più corpo estraneo dei percorsi d’insegnamento proprio nel momento in cui la frequenza di corsi di studio post-secondari si pone come necessità per una quota ampiamente maggioritaria degli studenti in ogni paese che voglia mantenere lo status di sviluppato.
Anche la questione del ruolo delle competenze umanistiche nel progetto di Bildung subisce, in Italia, gli effetti del permanere di questa cesura tra istruzione scolastica e una formazione universitaria concepita essenzialmente come completamento specialistico per chi ha già concluso il suo piano educativo generale con il diploma. Da una parte, come noto, c’è chi chiede di emarginare per quanto possibile campi disciplinari ritenuti sul piano formativo accessori per fare spazio, nella scuola secondaria, all’imposizione di un percorso unico ritenuto più direttamente “spendibile”. Dall’altra, chi intende levare la sua voce in opposizione alla svalutazione del campo storico-letterario lo fa spesso coi toni e gli argomenti esplicitati tempo fa da Alberto Asor Rosa, riassumibili nell’idea che per garantire un futuro a chi studia Lettere occorre assumere nuovo personale docente nelle discipline umanistiche all’università, legando di fatto la sopravvivenza di un campo di studi e di un’esperienza didattica alla propria riproduzione fine a se stessa.
Bisogna invece uscire dal cul de sac a cui portano inevitabilmente questi approcci, e cominciare a guardare al ruolo della cultura umanistica in un’offerta formativa ad ampio spettro, che proprio secondo l’esempio della general education dei migliori college americani non è né limitata ad anni di studio ormai troppo precoci per coglierne il valore, né ridotta alla “riserva indiana” di percorsi di studi esclusivi. Caso mai essa è offerta, in varie modalità e proporzioni, a tutti, secondo un progetto culturale che riserva alla scuola degli anni dell’adolescenza un ruolo di stimolo delle curiosità e delle passioni più che di apprendimento forzato di nozioni e tecniche iperspecifiche, e che negli anni successivi integra i percorsi di specializzazione vocazionale in un orizzonte sempre caratterizzato dalla varietà, dalla flessibilità e dall’ampiezza di riferimenti culturali sempre pronti a un uso “imprevisto”.
La questione, posta in questi termini, va a toccare un nervo scoperto forse ancora più urgente e sicuramente discusso da un pubblico molto più vasto in un mondo occidentale in transizione tra il benessere dello sviluppo industriale e le sfide di un futuro incerto: il problema del lavoro, inteso come rapporto tra formazione, occupazione di alto livello e crescita economica basata sulla conoscenza . Molte delle frizioni che stiamo vivendo in questo periodo, con l’Italia per varie ragioni nell’occhio del ciclone, sono dovute alla discrasia tra una formazione per lo più professionalizzante e specialistica, che sta riducendo anche il sapere umanistico a mera branca di formazione di gestori di quel tipo di conoscenza, e un mondo del lavoro sempre più dinamico, che richiede capacità di adattamento e propensione al cambiamento continuo delle proprie competenze e allo sviluppo di attitudini prima trascurate.
I paesi occidentali che riusciranno a sopravvivere alla competizione globale senza, impelagarsi nella concorrenza senza speranza a produzioni manifatturiere di qualità medio-bassa, saranno quelli che in una rinnovata promozione dell’alta cultura diffusa troveranno la chiave per rendere più naturale e meno traumatica l’imposizione di un modello di vita meno incentrato sulla successione temporale formazione-lavoro e più sull’istruzione continua e sulla compenetrazione dei due momenti fondamentali della vita attiva.
L’alternativa sarà quella di continuare a produrre le generazioni di analfabeti di ritorno, incapaci di sviluppare competenze accessorie “di riserva” al di la’ di quanto strettamente richiesto dalla loro occupazione “a vita”, che hanno contribuito a rendere così poco innovativo e produttivo il nostro mercato occupazionale, e la cui presenza rende oggi così difficile un intervento di razionalizzazione e fluidificazione.
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