Costume

O vole o non vole, monaca s’ha da fare!

3 Settembre 2018

Il 13 maggio 1781, sua eccellenza don Antonio Branciforti Colonna, vescovo di Agrigento, trovò sul suo tavolo da lavoro una busta che, già ad un primo sguardo, mostrava i segni deli tempo. Incuriosito, lacerò l’involucro e si trovò davanti un foglio ingiallito contenente un’istanza, vergata con scrittura minuta, indirizzata a sua eccellenza mons. Andrea Lucchesi Palli, suo predecessore sulla cattedra di San Gerlando, che portava la data 20 febbraio 1761.

Abbastanza perplesso, si diede cura di leggerne il contenuto con l’attenzione che, a suo dire, lo scritto meritava.

Quel foglio conteneva la richiesta, di scritta di pugno da una monaca di clausura, tale Rosalia Giambertone, figlia del neo barone Paolo Giambertone, di riduzione allo stato laicale, essendo stati i suoi voti estorti con violenza psicologica dal genitore.

Dopo la lettura del documento, il vescovo convocò il segretario per chiedere spiegazioni in merito ma, soprattutto, per sapere come mai quella lettera fosse rimasta inevasa dopo tanto tempo.

Né il segretario, né altri seppero però dare una qualche risposta.

Volendo andare fino in fondo, monsignor vescovo incaricò allora il Vicario foraneo di Bivona di verificare l’esistenza in vita della suora e di effettuare le relative indagini “assumendo – come scrive Paolo Di Salvo ricercatore al quale mi rifaccio – a verbale idonei testimoni, “ad probanda et verificanda” della attendibilità di quanto esposto nell’istanza che si era trovata fra le mani.

L’indagine, condotta con grande scrupolo dal prelato, fece emergere una storia drammatica, emblematica della condizione della donna in quel tempo: una storia di sopraffazione e di discriminazione.

Rosalia, era stata infatti chiusa in convento contro la sua volontà dal padre che, come si legge nel verbale, a fronte delle proteste e delle preghiere, raccolte anche da familiari e amici, che la figlia disperata gli rivolgeva, avrebbe sprezzantemente risposto “o vole o non vole monaca s’ha da fare !”.

Addirittura, la feroce determinazione del genitore, venne testimoniata da un tale Ignazio Mulè, persona vicino alla aristocratica famiglia, il quale riferì alla Commissione un episodio gravissimo.

Raccontò infatti che, un giorno, trovandosi il barone a passare sotto una finestra del convento di clausura dov’era chiusa la figlia, e avendo visto Rosalia dietro le sbarre che piangeva disperata, le si sarebbe rivolto con queste durissime e impietose parole: “l’ossa tue anno da restare nel monastero di San Paolo”.

Si era dunque perpetrata una violenza ai danni della professa che, nonostante in quel tempo queste cose fossero all’ordine del giorno, fece grande effetto sulla commissione incaricata di esaminare il caso e sullo stesso vescovo.

Vi chiederete cosa accadde.

Per soddisfare la vostra legittima curiosità, vi informo che Rosalia, dopo decenni di monacazione forzata, grazie a quella missiva, pervenuta in modo fortunoso agli occhi del vescovo, finalmente venne a ridotta allo stato laicale, riottenendo quell’agognata libertà che il padre le aveva con violenza sottratta.

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