Storia
Nuto Revelli, l’ultimo testimone degli sconfitti senza nome
Il testimone (Einaudi) è un libro a cura di Mario Cordero che propone una scelta delle interviste e delle riflessioni, ma anche delle emozioni, che hanno accompagnato Nuto Revelli scrittore.
Come sappiamo nella ricerca e nella riflessione di Revelli il mondo che va a cercare nelle baite di montagna è due cose: da una parte il residuo di un sistema complesso di vite, di ruoli, ma anche di storie che le guerre del Novecento hanno letteralmente sconvolto e dissolto; dall’altra, quel mondo, se sollecitato a parlare e se pazientemente ascoltato, è il depositario di un’altra storia d’Italia, o meglio del “rovescio “ della storia d’Italia come spesso ce la siamo raccontata. Una vicenda in cui s’incrociano molte storie: quella dell’emigrazione e dei ritorni; quella dei soldati mandato in guerra e mai ritornati; quella dello Stato che non si è curato di loro; quella dell’industrializzazione del secondo dopoguerra. Il dato di fondo è la lenta e progressiva morte della montagna.
Quella di Revelli, in un qualche modo è una versione che prende in carica l’impegno di Isaia 56, verso5: dare a ciascuno una rinomanza eterna, un memoriale e un nome. Anche per questo c’è un senso di dovere civico in quel suo narrare quelle storie.
Come ricorda Revelli, non è solo per giustizia è anche per dare una chance all’eguaglianza. Quei libri d’interviste (il riferimento è al Mondo dei vinti, ma anche a L’anello forte i primi due d nella letteratura civile italiana in cui i contadini, i montanari, e le donne delle campagne e delle montagne parlano in prima persona) sono i primi libri che entrano nelle loro case, i primi libri con cui pezzi interi dell’Italia marginale ma fondamentale dello sviluppo entrano in contatto con la parola scritta, superano la diffidenza iniziale per qualcosa che hanno sempre percepito come ingannevole, lontano, al servizio dei loro padroni.
Ma non solo. Ci sono almeno altre due cose che riguardano il nostro oggi e che Revelli sintetizzano in una lunga intervista-bilancio che rilascia nel 1987 (ora in questo volume alle pagine 186-209). Da una parte a me pare che ci sia un senso di voler capire la storia che ci riguarda oggi molto da vicino, non morboso né pettegolo su cui ci sarebbe molto da riflettere.
Revelli ricorda come alla base della raccolta delle lettere dei soldati dal fronte russo che compone L’ultimo fronte (Einaudi) egli sia abbia avuto accesso al privato, anche intimo di molte persone. E abbia deciso di non farne parola, ma anche di non mostrare le fotocopie agli eredi, dopo la morte dei loro genitori, se questi avevano preferito disfarsene in punto di morte.
Dall’altra un profondo e civile rimprovero a chi rappresenta una professione, un mestiere, una competenza, ma diserta. In breve il rimprovero a quel mondo della ricerca e dell’università che racconta di sé come il testimone del valore civile del sapere, ma poi non lo persegue, rinuncia. Revelli ricorda come nel 1970 sia venuto a casa sua Franco Venturi, accompagnando un antropologo inglese che voleva studiare un paese di una valle dela provincia di Cuneo e capire quali contraccolpi ha dato l’industrializzazione a una piccola comunità contadina. E commenta Revelli: “Partiva da Londra per venire a fare questa ricerca! E io pensavo: ma da Torino non parte nessuno?”
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