Storia
“Non restare indietro”: l’incontro con la storia come romanzo di formazione
Con Non restare indietro (Feltrinelli) Carlo Greppi compie quel passaggio che fino a oggi mancava intorno al “giorno della memoria” e all’esperienza dei “treni di memoria”.
La voce narrante di Non restare indietro, infatti, non è né quella dei testimoni, né quella dello storico professionale. Non restare indietro è prima di tutto una storia corale dove ognuno si esprime con la sua voce e, soprattutto, comunica le sue ansie, le sue domande, le sue paure, anche.
Ci sono varie voci: c’è la voce dell’esperto; quella della guida; quella dell’accompagnatore e costruttore dei viaggi di memoria; quella dell’insegnante, sia di quello “freddo”, sia di quello coinvolto che investe sul giorno della memoria energie, tensioni e passioni, ponendosi le domande intorno alla didattica della storia nell’epoca della molteplicità delle fonti; c’è la famiglia, spesso lontana, talvolta contro, che spesso stenta a capire i propri figli. Ma soprattutto ci sono i ragazzi, quelli ai quali l’attività del “giorno della memoria” è rivolta, ma che spesso sono pensati come dei contenitori da riempire, senza una loro personalità. Di tutti costoro ci sono le volontà, le domande, le resistenze e, soprattutto, le trasformazioni. Ci sono, altro elemento fondamentale, i loro gerghi.
Infine c’è che cosa significa e che cosa implica aprire un discorso intorno alla memoria oggi.
Tutto questo scritto con una penna veramente invidiabile, con una freschezza di scrittura che uno si chiede: ma dov’era finora Carlo Greppi e tutti quelli che con lui (Elena Bissaca, Gianluca Corzani, e tutti gli altri) attivi dentro Deina e nell’esperienza dei treni di memoria?
Per capire qualcosa non è male fare un passo indietro.
Credo che lo storico più sensibile che ha trovato le parole e anche la forma per raccontare l’esperienza dei treni di memoria sia Bruno Maida. E forse il testo più diretto – in cui inevitabilmente e come in tutta questa vicenda c’è una dose necessaria di “io” che entra e si mette in gioco – sia quello che Maida firma con il titolo Appunti di viaggio (si trova nel libro Noi non andiamo in massa, andiamo insieme, Mimesis, dedicato ai treni di memoria).
“Ho capito innanzitutto – scrive Bruno Maida – che tutti coloro che in questi anni hanno fatto partire i treni – in qualsiasi modo abbiano partecipato – sono convinti che l’emozione è una parte della conoscenza, ne è spesso impulso necessario, deve esplodere o trattenersi (perché ognuno di noi è diverso) nei luoghi negli incontri che toccano in profondità le corde del nostro esistere e le fanno improvvisamente risuonare. Sono anche tutti convinti che non basta, che non ci si può fermare lì, non si deve. La storia bisogna studiarla e conoscerla, farla reagire – come in una soluzione chimica – con il presente, dare corpo a qualcosa di vivo e vitale, capace di radicarci nel passato proprio perché ci aiuta a capire cosa viviamo. In questo ci deve essere metodo e rigore. Non ci sono scorciatoie ma solo diverse narrazioni e letture del passato”.
Che cosa sono dunque i “treni di memoria” che attraversano l’Europa dall’inizio del nuovo secolo per condurre soprattutto gli studenti nei luoghi della deportazione e dello sterminio nazisti?
Sono soprattutto mezzi e a un tempo laboratori sui quali giovani e educatori vivono una parte di un percorso educativo che si alimenta di una lunga formazione precedente, di una conoscenza e immersione nei luoghi, e si completa nel ritorno e nella restituzione della loro esperienza. Perché il problema non è andare verso un luogo, ma attraversarlo e dunque interrogarsi e interrogarlo e poi – una volta “tornati a casa” – elaborare quell’esperienza e continuare a costruire una coscienza pubblica attraverso quel viaggio per luogo.
Da questa lezione trae spunto Non restare indietro.
Si potrebbe leggere dunque Non restare indietro come la storia di un’esperienza. E’ vero ed è un modo pertinente e corretto di leggere questo testo.
Eppure, mi sembra, che se ci limitassimo a dire questo, noi individueremo solo un aspetto parziale della questione. Dunque occorre scavare di più. Essere più esigenti.
La didattica della storia attende proposte, più che risposte.
Più precisamente: proposte che nascano da un bilancio di ciò che si è fatto fin qui, quando la didattica della storia ha creduto di risolvere il problema offrendo fonti, ma senza entrare nel merito di proporre percorsi di riflessione.
E’ la svolta del manuale che si consuma nella didattica dalla fine degli anni ’70. Rispetto al testo narrativo degli anni ’50 e ’60, il manuale di storia, soprattutto quello del triennio delle superiori e poi soprattutto quello di storia del Novecento cresce a dismisura: si riempie di cartine, di mappe, di testi di supporto, di documenti, di lettere, di narrativa proposta come documento per la storia.
Ma questa sovrabbondanza di offerta non risolve il problema della didattica, perché il problema è come coinvolgere gli studenti nel mondo della narrazione storica. Ossia: come, partendo dal presente proporre un pezzo di passato; come si affronta il passato al presente. E’ il problema di come si racconta la storia oggi.
Indagare il passato richiede competenza, studio paziente, preparazione. Ma tutto nasce dalla voglia di sapere, dall’insoddisfazione di ciò che si sa, dal volerne sapere di più. Da una specie di ansia, senza la quale il racconto della storia rischia di perdere la voce e non parlare alle persone alle quali si rivolge. E alla fine di spengersi. E di morire.
Il futuro del racconto della storia, dell’indagine storica e del libro di storia chiede che si mettano in gioco molte cose, molte competenze professionali, ma anche il coinvolgimento attivo, emotivo, e le inquietudini o le richieste esigenti di chi il racconto della storia finora l’ha solo ascoltato e talvolta respinto, ma che potrebbe forse tornare a viverlo.
Il viaggio che Carlo Greppi ci propone all’interno del viaggio di memoria, di una pratica che appunto come ci ricorda Bruno Maida significa muoversi insieme e non “andare in massa” (e del resto il titolo del libro di Carlo Greppi esplicitamente evoca questa convinzione) è prima di tutto un modo in cui è possibile riprendere in mano la storia e farla propria, non impararla per sentito dire, bensì in relazione alle proprie riflessioni, e anche alle proprie emozioni.
Qui risiede l’elemento che fa di questo testo un testo di “svolta”.
Quindici anni dopo la celebrazione del primo “giorno della memoria” forse non è male riflettere su un ciclo rappresentato da questo quindicennio. In termini tanto di generazione quanto di lascito culturale, su cui è da valutare il radicamento, più che il successo.
Quindici anni non sono molti, ma rappresentano un tempo significativo, almeno in questo caso. Si provi a considerare questo dato: la maggior parte dei luoghi in cui si riflette pubblicamente nel “giorno della memoria” sono le scuole e quindici anni sono l’ampio ciclo scolastico dalla scuola materna all’esame di maturità. In breve con quest’anno esce dalla scuola quella generazione che nata nel 1997 e nel 1998 ha avuto come giorno segnato nel suo calendario scolastico fin da quando ha fatto il suo ingresso nella scuola materna il “giorno dela memoria”.
Una generazione scolastica che non ha mai conosciuto un “prima” del “Giorno della memoria”.
Domandiamoci perciò: quella generazione che cosa ha appreso? Che cosa ha trattenuto di questi quindici anni di 27 gennaio? Che cosa non ha mai ascoltato? Dove quella data/scadenza del calendario scolastico non ha funzionato? Che cosa lascia in dote?
Non ne sappiamo molto.
Lo stesso si potrebbe dire per le migliaia di persone che hanno riempito i “treni della memoria”. Che ne è stato dopo di tutti loro (adolescenti e adulti, docenti e anziani,..) in termini di riflessioni, azioni, sentimenti, convinzioni?
Sarebbe bene saperne qualcosa, perché il modo in cui questi cittadini (soprattutto quelli alle soglie del diritto di voto) vivono le emozioni e i percorsi delle riflessioni che li connotano, accomunati da un malessere e da un futuro che non si sa che dimensioni abbia, tutti questi elementi non costituiscono un dato banale o insignificante del nostro presente.
Marcano profondamente i sentimenti di una generazione cui abbiamo chiesto in questi anni di “ricordare”, spesso senza che ci ponessimo “in ascolto”, talvolta etichettando atteggiamenti con categorie in cui il rifiuto, l’atteggiamento antimainstrean è più forte del resto. Perché la memoria, piaccia o meno, spesso è apparsa o si è presentata nelle vesti dell’obbligo e, come tale, dell’istituzione. In questa versione la memoria non aveva niente di dirompente. Aveva, e spesso ha, molto di autoritario.
E’ una dura battaglia, emozionale, culturale, ma anche civile, quella cui Carlo Greppi dà voce in questo suo libro.
E’ bene accoglierla e provare a misurare le capacità di tutti quei soggetti che a titolo diverso costruiscono l’esperienza dei treni della memoria. Soprattutto dopo, quando si tratta, tornati a casa, di “assorbire il colpo”, di assumere un rapporto responsabile con ciò che si eredita dal passato e con i molti incroci con la storia che il presente ci propone chiedendoci di scegliere. Perché se è vero che la memoria scrive di passato e pensa al futuro, essa esprime il linguaggio e le inquietudini del presente.
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