Storia
Non più ufficiale e gentiluomo. Come la Prima guerra mondiale ci ha trasformati
L’esercito come esperienza in cui si confrontano la costruzione elle virtù civili e l’immagine dei valori militari e allo stesso tempo l’evento Prima guerra mondiale come momento in cui quell’ equilibrio si spezza con l’effetto che viene meno la “società delle buone maniere”.
E’ il profilo del libro di Lorenzo Benadusi Ufficiale e gentiluomo (Feltrinelli) che ha il merito di ricostruire con attenzione un aspetto della grande trasformazione che la Prima guerra mondiale, non solo in Italia, produce.
Il punto di partenza è il vissuto militare nei primi anni del Regno d’Italia.
L’esercito ha sempre rappresentato nella storia del Regno italiano un problema tanto economico come politico.
Lo ha rappresentato sul piano del bilancio, ma anche e più estesamente del ruolo, di come si è presentato e di come è stato vissuto,, soprattutto nei suoi quadri intermedi.
Una struttura che pesa a lungo nella vita del paese, che assorbe un quarto delle risorse mentre altre spese fondamentali per l’istruzione pubblica e i servizi sociali (ospedali, mutue,…) non raggiungevano neppure il livello minimo dell’uno per cento del bilancio totale.
Una struttura dunque carissima e spesso nemmeno adeguata, se come, poteva ripetere in Senato nel giugno 1905 il Generale Pelloux , che l’non aveva addestramento militare, perché prevalentemente impiegate a contenere e mantenere l’ordine pubblico. Una struttura che si ripercuoterà nel modello di combattimento, nel modo in cui lo Stato Maggiore percepisce la truppa, nell’utilizzarla come carne da cannone, ma anche pone dei problemi enormi a quella parte costituita dagli ufficiali che in guerra si trova a svolgere da una parte il ruolo di organizzatori del consenso, e, dall’altra, di tutori della disciplina (un aspetto che è forse il tratto più affascinante di Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu).
Dunque, se dovessimo trarre un profilo del lungo cinquantennio che dall’Unità arriva alla fine della Prima guerra mondiale, si vedrà che da una parte sta un ruolo pubblico, dall’altra stanno una visione e un immaginario che accompagnano l’esperienza militare, soprattutto dentro la sfera degli ufficiali.
Del vissuto del mondo degli ufficiali si occupa Lorenzo Benadusi in questo suo libro che fin nel titolo – Ufficiale e gentiluomo – richiama il film Taylor Hackford e con un indimenticabile Richard Gere, nel ruolo di un marginale, che sceglie l’esercito come riscatto di sé. Ma anche, si potrebbe dire, una chance in cui prioritario è per l’esercito ancora “bruciato” dalla sconfitta in Vietnam dimostrare che ancora può offrire un riscatto accreditandosi come esperienza di crescita civica, come luogo dell’educazione e della formazione del cittadino.
Sullo stesso piano si muove il libro d Benadusi laddove il problema è come nel corso di un lungo cinquantennio, tra 1861 e 1918, la dimensione militare rappresenta un percorso di costruzione dei costumi e della personalità in una condizione che appunto il suo utilizzo dell’ordine interno non ne fa una condizione adeguata ad affrontare con fermezza e disciplina le dimensioni della guerra.
A lungo l’immagine dell’esercito, il farne parte significano un processo di educazione, di definizione di gesti, linguaggio, morale, segnato dai codici dell’onore, del duello. Nota Benadusi che quest’immagine si accredita come una pratica iniziatica, un atto che segna il superamento di una soglia e l’ingresso in una sfera nobile, dell’”essere militare”.
Quello che emerge da questo primo quadro è ancora la dimensione di un esercito aristocratico. Il passaggio successivo è invece contrassegnato da una tendenza a fare dell’esperienza militare un processo in cui conta la persuasione, la convinzione ragionata e dove dunque più che il sentimento pesa la formazione culturale generale.
In questo quadro l’esercito è prevalentemente un momento pedagogico, formativo che supera la dimensione emotiva emozionale rappresentata consegnata da De Amicis nei suoi Bozzetti di vita militare.
E’ in questo quadro che a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento si manifesta una crisi dell’esercito che è prima di tutto crisi di reclutamento, ma anche di abbandono. Una crisi che era di vocazioni, di modello educativo, di formazione professionale.
La risposta a partire dal nuovo secolo, è la ripresa di una funzione educativa che nel conflitto tra quadri toro veniente dall’aristocrazia e quadri provenienti dalla borghesia e dall’altra un nuovo reinvestimento sul piano dell’esercito come vocazione come missione.
Nel primo caso il tema è la proposta dell’esercitpo come mestiere, come professionalizzazione, come competenza. Nel secondo caso è il profilo culturale proposto dal neonato movimento nazionalista che in Papini, e Francesco Coppola ha le sue voci, per i quali l’esercito appare ora – per il suo ordine gerarchico, per la sua rigida organizzazione e poer la sua severa disciplina – il modello ideale di società.
Un nuovo spirito che prima di tutto è testimoniato dalla profonda lacerazione che l’esercito si trova a vivere nel corso della guerra di Libia, una guerra iniziata nel vissuto del quadro medio dell’esercito come guerra al turco, come opportunità di dare nuova possibilità di libertà alla popolazione indigena che si trasforma dopo la sconfitta di Sciara Sciat (23 ottobre 1911) in una profonda conflittualità e odio verso la popolazione araba indigena, e dove quel linguaggio che è ancora in formazione nelle sfere del nazionalismo italiano che proprio nei mesi della guerra di Libia ha il suo battesimo politico. Il risultato è la configurazione di un linguaggio e di uno sguardo razzisti, profondamente caricati di disprezzo. Una trasformazione che elimina il paternalismo di partenza, nota Benadusi, per assumere i connotati, le parole, gli atteggiamenti di razzismo feroce.
Una trasformazione che si accompagna anche ad altro che consiste nella spettacolarizzazione delle violenze perpetrare, nel successo che ha la visione del macabro diffusa dai primi cortometraggi (la guerra di Libia è la prima ad offrire al pubblico italiano la possibilità di essere vista, ovvero di esser testimoniamo nata visualmente). Un processo che peraltro nel mentre mostra le violenze perpetrate non mostra quelle subite perché il tema è comunicare la propria invincibilità.
Tuttavia, quello che consente la distanza, diventa più problematico in condizioni di prossimità.
A tre anni di distanza da quella guerra in cui ciò che era stato comunicato anche con manifestazione del proprio esercizio del terrore, non regge alla prova dei fatti della prima guerra mondiale.
La guerra vissuta diventa un tempo della lacerazione intorno al tema della violenza, ma anche un momento in cui si perdono i propri costumi.
Nel conflitto tra rispettabilità borghese, e dunque morigeratezza dei costumi, e rottura dei canoni nel comportamento sessuale, di sregolatezza indotta dalla violenza, vista ed esercitata, nolto spesso vincono i secondi con l’effetto di accentuare i tratti aggressivi della personalità, di violenza fisica donne, o anche il semplice uso del loro corpo. O, viceversa, la diffusione di sentimenti di omoerotismo, di cui la vita in trincea, o l’esperienza del cameratismo, della condivisione degli spazi, più spesso dell’esperienza del vedersi nudi, inducono. In breve un venir meno di quella “società delle buone maniere” dominante a prima della guerra.
La guerra dunque pesa, sui comportamenti, sulla mentalità, sul senso della propria personalità, sull’uso del proprio corpo, e sul corpo degli altri.
Sono tutti tratti che tornano nel momento in cui finita la guerra si torna alla vita civile. L’effetto per molti che hanno vissuto l’esperienza della guerra sarà l’impossibilità di ristabilire un ritorno alla condizione interiore ed emotiva precedente la guerra.
Il ritorno dalle trincee non per tutti significò andare verso il fascismo. Ma significò comunque una metamorfosi. Sottolinea Benadusi che Mussolini fu l’unico a saper sfruttare la guerra come processo di legittimazione autoproclamandosi incarnazione dell’ “Italia di Vittorio Veneto”.
Non era un processo automatico e ad esso concorsero molte cose. Quello che è certo è che l’esperienza della guerra aveva aperto un processo di grande trasformazione in cui, tra l’altro, l’idea dell’ordine trapassa dalla figura dell’’ufficiale gentiluomo difensore delle virtù borghesi e i tradizionali valori militari, in quella dello squadrista.
Un processo che attraversa molte realtà sociali dell’Europa e che andrebbe visto non solo come crisi, ma appunto come sintomo di una trasformazione caratterizzata da molti processi, diversi, contraddittori tra loro, molteplici, ma che tutti dicono, concordemente, della profonda metamorfosi rappresentata dall’esperienza della Prima guerra mondiale.
Devi fare login per commentare
Accedi