Storia
“Non mi avrete”. Johann Trollmann, sinti, pugile contro il nazismo
Il 9 febbraio del ’43 Johann Trollmann, detenuto numero 721/1943 e si trova all’esterno del campo di Neuengamme, nei pressi di Amburgo. È il suo turno di lavoro. A un certo punto Cornelius, il suo Kapò, lo colpisce alla schiena, poi alla testa. Poi ancora e ancora, fino a ucciderlo. La ragione è semplice: Johann Trollmann è un sinti nato in Germania che il nazismo ha costretto a subire l’umiliazione da campione a “niente”, ma pochi giorni prima Cornelius l’ha sfidato a boxe pubblicamente e davanti a tutti – prigionieri, kapò e comandanti del campo, in breve vittime e carnefici, Trollmann l’ha mandato a terra. L’ha vinto.
Nel vocabolario di Cornelius, l’ha “umiliato” e dunque “occorre punirlo”. La morte è la punizione che i carnefici danno ai loro prigionieri, quando questi dimostrano che non sono “sottouomini”, ma uomini
Trollmann ha mandato ko Cornelius perché, come aveva detto a un suo compagno di prigionia poco prima di quel match fatale: “Lo so che rischio se rispondo ai colpi. Ma non si può sempre solo subire. Occorre anche dare”. I carnefici non amano perdere, si sa. Ma soprattutto non sopportano che le loro vittime si ribellino.
La storia di Johann Trollmann (1907-1943) soprannominato Rukelie (“albero”) per la bellezza del suo corpo e l’agilità dei suoi movimenti valeva la pena che fosse raccontata. Dario Fo c’è riuscito in un libro Razza di zingaro (Chiarelettere) – che ha il merito di restituirci una storia umana con semplicità e chiarezza accompagnandola con disegni di Fo che proprio alla leggerezza dei movimenti i ispirano.
“Nessuno può colpire duro come fa la vita. Perciò andando avanti non è importante come colpisci, l’importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti! Così sei un vincente!”.
Così Rocky Balboa a suo figlio Robert, nell’omonimo film, sesto episodio della serie.
Quella di Johann Trollmann, il pugile sinti che visse nella Germania nazista e che trovò la morte nei campi di concentramento, è una storia che sembra smentire questa massima. Perché Trollmann, incassava male. Soprattutto la persecuzione, dalla sua posizione di vincente ritrovarsi dichiarato sconfitto dal potere, dal razzismo lo porta lentamente ma inesorabilmente alla morte. Una condizione cui non si sottrae, perché non pensa mai di andarsene dal paese dove è nato, ma che non lo vuole più. O meglio lo vuole, ma annullato, “normalizzato” e alla fine morto.
La sua storia – raccontata con passione, con maestria e con molto affetto da Dario Fo – è l’esatto opposto di quella di Rocky Balboa, soprattutto per lo stile di boxe. Balboa, come il suo modello implicito Rocky Marciano predilige attacchi potenti al viso o al corpo e tiene la testa bassa per diminuire l’allungo dell’avversario, complessivamente ha una la scarsa tecnica. Riuscirà a diventare Rocky quando il suo nuovo allenatore lo obbligherà a cambiare radicalmente stile quando farà suo un ritmo di danza afro-americano che gli permette di muoversi saltellando sulle punte dei piedi, di colpire e spostarsi rapidamente e di tenere a lunga distanza l’avversario.
Quaranta anni dopo, nelle vesti di Rocky Balboa, Trollmann ha il suo riscatto, Almeno sul ring, non nella vita reale. Perché la vicenda di Ricky Balboa e quella Johann Trollmann rimangono molto distanti.
Qual è dunque la storia di Johann Trollmann?
La sua storia è quella di un sinti che nasce in Germania e incontra la boxe per caso, a otto anni. Il suo allenatore intuisce che ha davanti un vero campione: precisione nel colpo, una grande capacità danzante, un “ritmo”, passione, ma anche ironia. Insomma uno che “interpreta” la boxe e non la esegue. A suo modo un attore del ring.
Ma i suoi sono i tempi della crisi in cui ciò che si aspetta è un campione che non rinnovi le regole, ma continui la tradizione e dunque garantisca dell’identità nazionale. La Germania in cui nasce Trollmann è il Reich guglielmino d’inizio Novecento; quella in cui cresce e si forma adolescente è il paese mobilitato della prima Guerra mondiale; quella in cui inizia a emergere come campione è la Repubblica di Weimar.
Lì la sua vita si divide in due tempi distinti: fino alla metà degli anni ’20 la sua carriera è in ascesa. A partire dal 1928, il senso s’inverte e la sua carriera subisce un rapido tracollo. Se fino allora Johann Trollmann è stato un pugile applaudito dagli uomini che ammirano lo stile, la scioltezza, l’intelligenza, ma anche l’ironia della sua boxe e l’idolo di tante ragazzine innamorate del suo corpo, ora proprio il suo corpo, ma anche il suo modo di boxare inizia a essergli di ostacolo.
Dalla fine degli anni ’20 essere sinti e non rispettare la forma canonizzata della boxe, è un handicap. La lega di pugilato nazionale prima lo esclude dalla convocazione della squadra olimpica (siamo nel 1928) poi non gli riconosce il titolo di campione nazionale, poi gli chiede di boxare stando fermo al centro del ring. In breve di non essere più lui.
Siamo nel luglio 1933 qui si consuma la svolta irreversibile della sua vita.
Il 14 luglio1933, il governo Hitler al potere da meno di sei mesi vara la “Legge per la prevenzione di progenie affetta da malattie ereditarie “ (Gesetz zur Verhütung erbranken Nachwuchses) E’ la legge che prevede la sterilizzazione coatta delle persone individuate come affette da malattie ereditarie. Tra gli individui sottoposti a sterilizzazione coatta, conformemente a questa legge, figurano anche gli zingari.
Il 17 luglio 1933 Trollmann dopo che un in un precedente incontro non gli è stata riconosciuta la vittoria, per tutti gli spettatori certamente sua, sale di nuovo sul ring. Gli è stato chiesto di combattere con lo stile nazionale: niente più danza, niente più fantasia, fermo al centro del ring.
In breve gli hanno chiesto di non essere più se stesso. Trollmann si presenta sul ring quella sera con i capelli tinti di biondo, pieno di borotalco su tutto il corpo per sembrare un “bianco” e sta fermo. E perde. Avverte che ciò che è stata decretata quella sera è la sua morte.
Decide di continuare a boxare, ma clandestinamente. La federazione gli ritira la tessera di pugile professionista. Siamo nel 1934.
Da quel momento la strada è velocemente in discesa. Prima deve abbandonare la moglie (cosacca) e la figlia per fare sì che non siano perseguitate, poi deve rifugiarsi per non essere catturato, poi è costretto ad arruolarsi nell’esercito del suo paese (un paese che lo vuole succube, senza diritti, ma che pretende di essere difeso da lui) poi è fatto prigioniero e spedito in un Lager e alla fine verrà ucciso da un Kapò che lo ha sfidato a boxare e ha perso.
La storia di Johann Trollmann non ha i tratti diversi da quella di milioni di altri individui discriminati e perseguitati per la loro diversità. Nemmeno nella morte, dove chi comanda deve dimostrare chi ha il potere, la sua vicenda è eccezionale. Si potrebbe dire è il canone di tutti i totalitarismi.
E tuttavia è importante aver scritto questa storia. Ma era molto importante raccontarla.
Lo sterminio dei sinti ad opera del nazismo è ancora un tema marginale nella coscienza pubblica. Per vari motivi: perché le minoranze hanno sempre difficoltà a far parlare di sé; perché la storia delle minoranze raramente è raccontata da chi non appartiene a quella minoranza; perché i movimenti dei sinti per i diritti civili sono ancora movimenti molto divisi, e con scarsa presa nell’opinione pubblica in forza di un pregiudizio che pesa ancora su di loro.
Per questo il libro di Dario Fo è importante. Per la sua natura civile contro la cortina del silenzio.
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