Storia

“Noi, uomini di Falcone, servitori di uno Stato che ci volle sconfitti”

23 Maggio 2015

Lo chiamavano “Billy the Kid”. Era uno degli uomini di Giovanni Falcone. Un mastino calabrese, classe 1942, tracagnotto e irruento, sbarcato nella “terra di mezzo” nell’anno 1981 mentre infuriava la guerra di mafia, mentre le lupare venivano sostituite dai fucili d’assalto di fabbricazione sovietica, mentre i corleonesi spargevano terrore sotto il Monte Pellegrino e sulla tratta Palermo-Catania correvano appalti e subappalti, spregiudicate operazioni immobiliari, mazzette, false fatturazioni miliardarie, industriali collusi, colletti bianchi e rispettabilissimi cavalieri del lavoro.

Adesso, per la prima volta, l’allora capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini, oggi generale, racconta le mille avventure di quella stagione insanguinata, vissuta per metà on the road e per metà al comando della sezione antimafia, nelle aule dei tribunali siciliani, a bordo delle Alfette con i lampeggianti e delle auto civetta, nell’ammezzato buio – avanti e indietro – che conduceva alla stanza blindata del numero uno della Procura palermitana. Che sarebbe saltato in aria a Capaci il 23 maggio 1992: strage ancora lontana nel tempo, eppure così vicina già in quegli anni Ottanta che percorrono le pagine del libro che Pellegrini ha scritto a quattro mani col giornalista Francesco Condolucci e che s’ intitola “Noi, gli uomini di Falcone. La guerra che ci impedirono di vincere” (Sperling & Kupfer). Un racconto, il suo, che è un’epopea dai toni pacati. E che intreccia le vicende personali dell’io narrante con quelle di Falcone e di altri commilitoni (noti e meno noti) sul fronte di una guerra che da istituzionale divenne a tratti personale.

Una volta superato lo Stretto, Pellegrini mette insieme una squadra di fedelissimi – appunto, la banda del capitano Billy The Kid – guadagnandosi l’amicizia del magistrato. E’ il tempo dell’azione congiunta tra carabinieri, polizia e piemme che culmina nel rapporto dei 162 e nell’estradizione di Tommaso Buscetta. E’ il periodo più drammatico della lotta a Cosa Nostra, portata avanti mentre i viddani di Totò Riina e Bernardo Provenzano falcidiavano a colpi di Kalashinikov le vecchie famiglie e per le strade di Palermo cadevano le vite di Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Cassarà, Montana. E’ il periodo del “grande calderone”, quel processo alla (non di) mafia ribattezzato dai giornali maxiprocesso. Che poteva essere il colpo decisivo e che invece non lo fu. Perché?

Forse – ed è questa la tesi di Pellegrini (che lascia anche intravedere le ragioni della trombatura subita alla fine degli anni Novanta quando avrebbe dovuto prendere il posto in Sicilia di Mario Mori) – perché “il vero nemico rimase senza volto: un oscuro, ambiguo potere politico che prima negò i mezzi, risorse e possibilità, e poi smantellò la squadra. In fondo, a voler vincere quella guerra, erano davvero in pochi”. Il generale racconta inoltre come Falcone, seguendo la scia del ciclone Buscetta (nel frattempo altre due cantate, quella di Totuccio Contorno, vecchio braccio destro di Bontate, e quella di Nino Calderone, fratello del boss catanese Pippo, offrivano nuovi spunti di indagini), riuscì a far luce sui delitti politici di Reina, Mattarella, La Torre. E a ordinare altri due arresti epocali: quelli dei fratelli Nino e Ignazio Salvo, gli ex intoccabili esattori di Salemi, finiti in manette sotto gli occhi di una Palermo sgomenta. Di un’Italia sgomenta. Di una Roma che temeva la frana dei suoi potenti palazzi. Di quel terzo livello politico-mafioso fatto di nomi eccellenti e comitati d’affari. Si poteva cantare vittoria? Macché. Da quel preciso momento inizia a propagarsi quella che Pellegrini chiama “contestazione strisciante” capitanata dai “crociati del garantismo, da magistrati che sollevarono dubbi procedurali sul maxiprocesso, da una campagna stampa contro la giustizia spettacolo e il pentitismo”. L’ex capitano racconta la strana agitazione provata in quel periodo. Una sorta di presagio gli faceva ronzare in testa il vecchio detto siciliano del “più si vince, più si perde” (in palermitano: chiussai si vince e chiussai si perde). Un giorno – ricorda – si chiude nel suo ufficio (circolava voce che l’avrebbero trasferito: cosa che avvenne nel 1985) – e annota nell’agenda personale le sue riflessioni a proposito delle cose successe negli ultimi anni: dal processo Chinnici ai viaggi in Brasile, alle confessioni di Buscetta, al blitz di San Michele, agli ultimi clamorosi arresti. E poi una percezione improvvisa, la reminiscenza di una frase che tante volte ha sentito ripetere a Palermo. E che decide di riportare nell’agenda di quel 1984, così, a futura memoria: CHI TOCCA I SALVO MUORE (chiosa: e non solo fisicamente).

Tra le chicche del libro di Pellegrini (che fu il primo – scrive Attilio Bolzoni nella prefazione – a inseguire segretamente Provenzano custodendo le carte in una grande scatola di acciaio di fronte alla scrivania) spunta la spedizione compiuta nel novembre 1984 in Sud America per assistere alle rogatorie dei complici di Buscetta arrestati l’anno prima e ancora in attesa di estradizione. Arrivati laggiù, il pool guidato da Falcone viene travolto da una forza mediatica che nessuno si aspettava. I canali tv aprono i telegiornali con la notizia dello sbarco degli investigatori. “Solo in quel momento – racconta Pellegrini – mi resi davvero conto di quanto la fama di Giovanni Falcone avesse ormai varcato i confini dell’Italia. Tutti, all’estero, sapevano chi fosse e che cosa stesse facendo. I processi che aveva istruito, le indagini che stava conducendo e la collaborazione con le più alte personalità del mondo giudiziario americano gli avevano fatto guadagnare un rispetto e un’ammirazione che forse non aveva nemmeno nel suo Paese”. Del resto, avevano fatto il giro del mondo le immagini della scorta, dell’auto blindata e di quell’elicottero che seguiva dal cielo ogni suo spostamento. E lui, Falcone? “Si schermiva. Il più divertito era invece Borsellino. Con i brasiliani riusciva persino a conversare nella loro lingua. Lo guardavamo increduli mentre si lanciava in lunghe e approfondite chiacchierate con i giornalisti”. Sosteneva che era facile il portoghese, che era uguale al dialetto genovese.

Assediati da cronisti e fotografi, con le telecamere e i microfoni sempre puntati addosso, a Falcone e ai suoi uomini non resta che inventare una via di fuga. Una domenica mattina sgattaiolano dal sottopassaggio che dall’hotel di Rio de Janeiro dove pernottano conduce direttamente alla spiaggia. “Lo avevo scoperto durante il sopralluogo che avevo fatto al nostro arrivo, per ragioni di sicurezza. Così proposi di sgusciare via da lì per andare a visitare le feiras, i famosi e coloratissimi mercatini che nei giorni di festa si tengono a Ipanema, al confine con Copacabana”. Ma, nonostante le precauzioni, un flash riesce a immortalare la passeggiata degli strani “turisti”. E l’indomani il quotidiano O Globo pubblica un primo piano del giudice intento a osservare il banchetto dei piranha sotto un titolo che dice: “A Rio il nemico della mafia”. Qualche settimana dopo l’FBI avrebbe rivelato riservatamente che, in occasione di quel viaggio in Brasile, era stato programmato un attentato contro la delegazione siciliana: non era chiaro chi fosse il mandante, ma i dettagli sull’esecuzione non mancavano (c’era il camorrista napoletano trapiantato in Sud America e c’era il funzionario di polizia brasiliana pagato per spiare i movimenti del magistrato). Se il colpo è saltato – dicono ancora i federali – il merito è di quella torma di fotoreporter che non vi ha mollati un attimo. Falcone ordina che l’informazione rimanga riservata: “Non vorrei doverli pure ringraziare pubblicamente” mugugna. Si riferiva ai giornalisti…

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