Legislazione
Nella crisi degli archivi c’è la crisi del nostro rapporto con lo Stato
Sia nel programma delle primarie di fine 2012, sia nella trionfale scalata alla segreteria del Partito democratico dell’anno successivo, Matteo Renzi aveva messo al centro della sua proposta politica l’approvazione di un Freedom of Information Act italiano, destinato a diventare l’architrave per una nuova stagione di trasparenza dell’amministrazione pubblica e di effettiva accountability per le istituzioni rappresentative.
Il modello esplicito dell’idea è il FOIA statunitense, provvedimento introdotto a livello federale nel 1966 per consentire, in breve, che l’accessibilità incondizionata alla documentazione prodotta dagli istituti governativi diventasse la regola, e le restrizioni a questo stato, motivate per lo più dalla presenza di dati sensibili per la privacy individuale o di informazioni classificate per ragioni di sicurezza ancora in essere, fossero occasionali e chiaramente limitate nel tempo.
Si può discutere, naturalmente, su alcune incongruenze tra l’obiettivo a cui ha fatto spesso riferimento Renzi nelle sue campagne, ovvero la reperibilità online di tutta la documentazione prodotta dall’amministrazione pubblica, e la reale ratio del FOIA, ovvero l’effettiva e immediata accessibilità alle informazioni che effettivamente si richiedono (possibilmente senza essere “soffocati” da un eccesso di materiale che nasconde quel che ci serve…). La volontà di porre il problema del flusso dei dati verificabili tra cittadini e uffici pubblici con ampia libertà d’azione da parte dei primi, e l’ispirazione a una legislazione riconosciuta come un modello operativo di alto profilo in tanti paesi democratici, resta comunque un atto significativo in un dibattito politico generalmente così provinciale su questi problemi.
Come molti altri progetti che Renzi ha meritoriamente avanzato durante la sua lunga campagna per affermarsi come leader nazionale ed europeo, però, anche l’attuazione di un FOIA italiano è scomparsa dai radar rapidamente, dopo che l’ex sindaco di Firenze ha acquisito il ruolo di segretario di maggior partito italiano e di capo dell’Esecutivo. La questione è tanto più grave perché mentre il tema è entrato, come tanti altri, in stand-by, si stanno rapidamente deteriorando le infrastrutture che dovrebbero costituire la base fondamentale per l’effettivo esercizio del diritto dei cittadini alla trasparenza come previsto da ogni dispositivo legislativo modellato su quello statunitense: gli archivi.
Alcuni giorni fa, lo storico Guido Panvini ha pubblicato su Doppiozero una documentata e acuta analisi dello stato critico delle nostre risorse archivistiche, che invito tutti a leggere per avere un quadro completo. Crisi economica, causata dalla restrizione delle risorse pubbliche disponibili accompagnata da una politica di collocazione dei patrimoni documentari quantomeno poco lungimirante, vista la mole di materiale conservata in locali affittati con canoni che inesorabilmente stanno strozzando i budget. Crisi di personale, perché la riduzione degli addetti rende sempre più difficile un accesso fruttuoso alla documentazione, specialmente per le serie documentarie più ricche e potenzialmente più interessanti. Crisi di competenze, perché il mancato turnover e la precarizzazione stanno gradualmente disperdendo un patrimonio di competenze relativo alle relazioni tra le raccolte, la loro formazione e la loro funzione, patrimonio fondamentale nell’interazione col lavoro ricostruttivo degli storici, senza che si possa, causa la scarsità di mezzi, mettere pienamente a frutto l’utilizzo delle nuove tecnologie nella fruizione delle carte. Il tutto mentre gli uffici pubblici continuano a scaricare chilometri e chilometri di materiali di cui, semplicemente, non si sa che fare.
In un momento di così profonda crisi del nostro apparato produttivo e della sua capacità di assorbire occupati e di distribuire ricchezza e benessere, dunque, è davvero necessario trovare un posto al problema delle nostre risorse documentarie storiche in testa all’agenda politica? Sì, perché attraverso le infrastrutture archivistiche passa il nostro rapporto con i prodotti istituzionali delle agenzie che hanno regolato e regolano la nostra vita e la possibilità di conoscerne l’operato per non subirlo come sudditi. In esse, infatti, deve essere mantenuta la “materia prima” per un approccio trasparente alla ricostruzione di scelte politiche, messe in opera di disposizioni legislative, responsabilità amministrative e giurisdizionali.
“Un Paese che non è in grado di narrarsi è destinato a dissolversi. Una Repubblica incapace di gestire i propri archivi sarà destinata a soccombere. Ne va della coesione sociale, innanzitutto, della fiducia nelle istituzioni e financo della nostra stessa identità: l’equilibrio tra memoria, storia nazionale, storie collettive e individuali è l’unico antidoto alle narrazioni mitologiche ed identitarie, alle falsificazioni e alle invenzioni del potere che i traumi del Novecento hanno insegnato a riconoscere come una delle più gravi minacce per la democrazia”, chiude il suo intervento Panvini. Ma il nostro presidente del Consiglio, che senz’altro comprende fino in fondo le implicazioni gestionali che comporta il FOIA da lui opportunamente invocato a suo tempo, non dovrebbe aver bisogno di questi ammonimenti.
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