Storia
Napoleone duecento anni dopo Waterloo
Sono stato qualche anno fa a Waterloo, della cui battaglia (18 giugno 1815) cade oggi il bicentenario. Ci sono dei campi marezzati di un verde intenso in un pianoro leggermente ondulato, e al centro del sito commemorativo – a due passi dalla trattoria che a quei tempi era un capanno dove Napoleone fece non ricordo più che cosa e dove noi filistei, ignari dei rimbombi della storia, mangiamo delle buone frites e beviamo la straordinaria birra belga – si erge questa artificiale “Butte du Lion” (la collina del Leone) che è dedicata a un principe della casa d’Orange qui ferito in battaglia. Ma un turista francese, tra il serio e il faceto, ci racconta una storiella che è una manifestazione buffa e fantasiosa dello sciovinismo in cui amano crogiolarsi i suoi connazionali. Secondo lui c’è sotto un gioco di parole: “Lion” sarebbe l’abbreviazione contraffatta di Napoléon, e siccome non si poteva collocarvi in cima la sua statua come in Place Vendôme a Parigi (visto che a Waterloo fu lo sconfitto e non il vincitore come ritenne l’esilarante top manager della Telecom Giuliani) si è giocato d’astuzia con l’installazione di un enorme leone di pietra. Come dire: il leone Napoleone qui dominò e trionfò indomito e invitto.
Trasportati per il campo di battaglia dal trenino disneyano dei turisti, l’aria ebete e soddisfatta dei contabili in vacanza alle prese con i frissons de l’histoire, immersi nel teatro di guerra dove ci vien detto gli anglo-olandesi fecero questo e i francesi quest’altro – sfido chiunque a riassumere gli esatti schieramenti e le fasi della battaglia – , volgiamo attorno a noi lo sguardo, sperduti come Fabrizio del Dongo nella “Certosa di Parma” proprio a Waterloo, senza capire il reale senso degli avvenimenti. Io ricordo di tutta la narrazione, a mala pena, che alla fine arriva Blücher come un deus ex machina nella tragedia greca e per Napoleone tutto finì nonostante il quadrato eroico della Guardia Imperiale. Sovrastati dal peso immane della storia, alla mente torna piuttosto la domanda scolastica del poeta Manzoni: fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza. E tuttavia, anche per noi che siamo i posteri, a distanza di duecento anni risulta difficile abbracciare in un giudizio sintetico, non dico condiviso, la vita e l’opera di quest’uomo. Ciò vale in realtà per l’io cangiante di ciascuno di noi – l’io essendo come un club dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono –, tanto più per un uomo in cui Dio volle più vasta orma stampar. Impossibile risulta ogni sua frettolosa catalogazione, tranne il fatto ovvio – che non sarebbe sfuggito alla deliziosa enfasi del signor Micawber – che fu una potente personalità che lasciò incancellabili tracce in quell’incubo da cui ci dobbiamo ancora svegliare che è la storia.
Un solo esempio di queste tracce. Se percorrete le coste di quell’Istria che oggi è slovena o croata e ammirate la bellezza dei luoghi e riscontrate a ogni passo le vestigia della civiltà veneziana – c’è in ogni isoletta che vi capita a tiro il campanile con la cuspide triangolare o il “gatto“ di Venezia (il leone di san Marco) in ogni arco – orbene se questi luoghi non sono più né veneziani né italiani e non vi risuona ormai che raramente la parlata istro-veneta, lo si deve al ventottenne Napoleone che con una firma in calce al trattato di Campoformido (1797) decretò la fine della millenaria repubblica veneziana e consegnò, in cambio dell’ effimero regno d’Italia e di transeunti allargamenti di confine in Belgio e lungo il Reno, quei possedimenti adriatici di Venezia all’Austria, che li tenne seppur non continuativamente tra guerre e paci per più di cento anni, per poi ritornare italiani dopo la prima guerra mondiale e per essere definitivamente persi dopo la seconda. Certo non era Bonaparte a decidere ma il Direttorio, nondimeno fu a causa delle sue imprese militari italiane che alla fine del conflitto si giunse all’epilogo con il quale l’Austria “rimise il suo mantello di piombo sugli italiani” come scriverà in seguito Chateaubriand.
Vasta orma sicuramente. La difficoltà risiede nell’interpretarla. Siamo abituati a catalogare gli uomini e le loro idee a destra o a sinistra, quantomeno a partire proprio dalla Rivoluzione francese. Ma con Napoleone lo schema non funziona granché: sembrerebbe, il nostro uomo, né di destra né di sinistra o forse, più corretto dire, sia di destra che di sinistra. Caso singolare di mosaicismo ideologico. Fatto sta che la destra storica francese come quella di Charles Maurras de l’Action française lo rifiuterà, ritenendolo troppo legato all’eredità della rivoluzione; mentre la sinistra marxista – dai cui ranghi verrà il suo biografo più accreditato, Georges Levebvre – avrà generiche simpatie per l’uomo che aveva affrettato l’ascesa della borghesia e quindi, dialetticamente, quella del proletariato, rendendo pronto lo schieramento dello scontro finale, anche se aveva fatto arretrare la Rivoluzione rispetto al punto in cui l’aveva condotta Robespierre. Ma il giudizio non fu unanime, qualche storico marxista lo rifiutò di netto. Per altro verso fu odiato, e pour cause, dai realisti che lo ritennero un usurpatore, ma anche dai liberali che videro in lui il despota. Germaine Necker, alias M.me de Staël che s’era battuta, fedele al costituzionalismo liberale, contro la monarchia senza limiti e contro il giacobinismo senza freni, non poteva che contrapporsi al bonapartismo senza contrappesi. A lui Germaine in “Dieci anni di esilio” dedicherà un graffiante ritratto, sottolineando la natura del giocatore solitario.
Mi accorsi ben presto che il suo carattere non poteva essere definito con le parole che abitualmente usiamo. Non era né buono né violento, né crudele né dolce alla maniera umana, ma era un essere che, non essendocene di uguali, non poteva sentire simpatia per nessuno né tanto meno suscitarla. […] La sua forza consiste in un imperturbabile egoismo. [Egli è] un abile giocatore di scacchi il cui avversario è il genere umano e verso cui si propone di fare scacco matto.
Tiranno soggiogatore di popoli venne sempre considerato dai tenaci inglesi. Ma i tedeschi e gli italiani videro in lui il re-suscitatore delle loro nazionalità ibernata, una sorta di liberatore. Gli spagnoli invece lo combatterono inventando contro di lui la guerrilla, che da allora venne esportata in tutto il mondo come modello vincente nella lotta di popolo contro gli eserciti regolari. Per noi italiani, la sua discesa nella penisola nel 1796, la prima di un francese dopo secoli dai tempi di Carlo VIII, segnò l’allentamento sulle coscienze della Controriforma ma non l’estinzione totale dei suoi effetti, che sono ancora in mezzo a noi. Le truppe napoleoniche portarono nella Penisola qualche tizzone di giacobinismo e la rivoluzione francese, l’evento cioè che diffuse, impastata nella confusione politica dell’evo, l’eresia liberale «ben più efficace contro la chiesa dell’eresia protestantica» (secondo Gramsci). La penisola cominciò a svegliarsi dal lungo letargo dei “secoli bui” e per molti storici è proprio nell’epoca napoleonica che si pongono le radici del Risorgimento. Se questo era il segnale progressivo, rivolto al futuro, ben presto apparve quello regressivo: il monarca autoincoronato con l’occhio rivolto al passato che insegue il sogno impossibile di restaurare l’impero di Carlo Magno, così prefigurando tuttavia – a complicare lo scenario interpretativo – un’Europa riunificata.
Despota, tiranno, usurpatore, l’Antichrist addirittura come si legge in apertura di “ Guerra e pace” di Tolstoj. Un despota sicuramente, ma illuminato come un Giuseppe II o una Maria Teresa d’Austria: non s’era ancora visto un militare cresciuto nelle caserme che vara un codice civile che segnerà tutto il XIX secolo e oltre sia della Francia come dei paesi che ricorsero alla codificazione, compresa l’Italia. Quanto all’uomo d’arme non minor genio e ferocia si fondono in lui. Pone fine concettualmente alla guerra dei Sovrani per inventare quella dei popoli, una nuova concezione bellica che porterà tragicamente alle guerre di annientamento mondiali e alle sue orrende carneficine. E se tiranno e usurpatore, lo fu con vasti consensi popolari come rivendica nel “Memoriale di Sant’Elena”.
Ma forse Napoleone è semplicemente l’uomo che, combinando merito e intrigo, trova il varco nel mondo e si ricava nella storia la sua privata occasione, una sorta di avventuriero settecentesco alla Barry Lyndon che rilancia senza posa la verifica dei conti con la propria sconfinata ambizione fino allo schianto di Waterloo. Decisiva fu agli esordi della sua avventura umana la liaison sfociata in matrimonio con Joséphine de Beauharnais, la creola dai denti guasti e dall’alito pestifero che era stata l’amante di Barras, l’uomo forte del Direttorio che dava le carte in quel momento e che assegnerà al ventisettenne generale il comando dell’Armée d’Italie: un’occasione irripetibile, da non mancare, che egli, da uomo di genio, massimizzerà fino alla presa del potere assoluto. Napoleone si rivelerà l’uomo che predica il merito, che promuove e valorizza una genia di giovani Marescialli “figli di nessuno” – che s’erano fatti strada, come lui, nella carriera anche a dispetto dell’editto di Ségur (1781) che stabiliva il requisito dei quattro quarti di nobiltà per accedere alla carriera di Ufficiale, e anche grazie al fatto che gli alti ranghi militari s’erano svuotati per la fuga dei nobili Emigrés. Ma è anche l’uomo in contraddizione con i suoi principi che pur puntando sul merito nell’intenzione – assicurando che “il genio non è ereditario” e che “ogni soldato porta nello zaino il bastone di maresciallo” – lo disattende nella sostanza cedendo al bieco familismo italiano assegnando a fratelli, sorelle e cognati pezzi dell’Impero, e per tale ragione forse andando incontro alla propria rovina.
Durò quasi vent’anni la sua vicenda pubblica, neanche cinquantadue la sua occasione terrena. Sic transit gloria mundi.
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