Storia

Mostrare Mussolini per quello che è. Antonio Scurati: operazione riuscita

29 Dicembre 2018

Due criteri sono al centro di M. Il figlio del secolo. Il primo riguarda la geografia del fascismo. Da una parte sta Milano che appare come la scena grande del fascismo, ma anche il luogo degli umori. Il luogo in cui la politica trova le parole. Significativamente sarà la città dove nell’ottobre 1923 Mussolini celebra il primo anniversario della Marcia su Roma, e dove nel 1928, una volta costruito il regime, pensa di collocare la Mostra per il decennale della fondazione  dei Fasci. La mostra non si farà nel 1929, verrà spostata a Roma, e inaugurata nell’ottobre 1932, in un momento in cui nel Partito nazionale fascista qualcuno pensa che anche il partito sia inutile e sia meglio mandarlo in soffitta. Lì probabilmente finisce il matrimonio tra Milano e il fascismo.

Insieme c’è poi c’è la provincia profonda, la Bassa lungo la Via Emilia e verso le Foci del Po (altro luogo che vivrà di alti e bassi nel consenso e che sarà anch’esso destinato a un divorzio in anticipo) , dove la politica trova le persone. Sono le scene che si dipartono da Bologna nell’aprile 1920, si impongono con Leandro Arpinati – sempre a Bologna sette mesi dopo, mentre Gabriele D’Annunzio esce di scena dalla mente di chi sta nel movimento, ormai già innervato da una nuova leva di entusiasti mossi dalla paura del rosso (vera o presunta) più che dal risentimento della trincea, come intuisce Alberto Cappa in tempo reale tra 1922 e 1923 –  e poi con Italo Balbo nel 1922 per divenire potenza.

Il secondo criterio chiama in causa la lettura e la mente del politico, lo scavo intorno alla politica come macchina che fa muovere persone.

Non so se la differenza in politica la fa la distanza tra presbiti e ipermetropi, ovvero tra chi è capace di vedere lontano e chi ha una maggiore capacità di visione complessiva (anche se di minore messa a fuoco). Ma la distinzione rende l’idea. Antonio Scurati la cala giù, senza dilungarsi molto a pag. 261 del suo M. Il figlio del secolo. Sono i giorni dell’autunno 1920 mentre a Fiume Gabriele D’Annunzio crede di essere il distributore delle carte della politica, ma per Mussolini è già un morto in piedi. Due anni dopo nei giorni della Marcia di Roma, D’Annunzio farà il malato grave, pensando che gli assenti pesino in politica e aspettando inutilmente che qualcuno lo chiami. Poi, quando realizza che la storia si fa senza di lui, chiederà al suo medico di prescrivergli un periodo di “assoluta solitudine”.

Non è l’unico. Nel momento in cui le masse scalcinate degli arditi arrivano a Roma il 31 ottobre 1922 (tre giorni dopo e a evento consumato, comunque solo per essere immediatamente rispedite a casa) anche altre voci di contorno prendono la misura con la loro sconfitta politica: la vecchia classe politica dell’Italia liberale; il mondo socialistaCon loro lo stile politico dell’Italia di Giovanni Giolitti.

Tuttavia proprio nella distinzione presbiti/ipermetropi sta una chiave di questo libro che secondo me ha la capacità (e la forza, aggiungerei) di costringerci a prendere di nuovo le misure con la politica, con il rapporto tra masse e capo.

Per leggerlo, secondo me, occorre una modalità di lettura che prendo in prestito da un amico (che ringrazio per l’autorizzazione a riprodurlo qui)

Francesco Filippi, dopo la lettura di M. Il figlio del secolo ha scritto sulla sua pagina FB (la citazione è lunga, ma ne vale assolutamente la pena).

 

M. mi è sembrato un libro cattivo, perché ti frega quasi subito: ti ritrovi a leggere la storia di un Joker paraculo, che si barcamena tra le proprie idee, piuttosto confuse, la marmaglia che cerca di comandare, ex amici che lo abbandonano, nuovi ingombranti amici che cercano di fotterlo. Un Joker che si vuole mangiare Gotham City tutta intera, e che ce la fa solo perché nessun Batman si staglia all’orizzonte. Lo odi dal principio, M., perché è nato antieroe, è furbo abbastanza da sembrare scaltro, cattivo come solo i deboli sanno esserlo, risoluto come solo chi si è vergognato delle proprie scarpe vecchie sa esserlo. Godi quando prende gli schiaffi perché sai già come andrà a finire, anche se non ci vuoi credere; M. è il Franti del libro cuore che non rimane a sinistra a mettere le bombe, come si augura Eco, ma è uno che dopo l’ennesimo tentativo di essere il primo fra un gruppo di uguali decide di provare ad essere il primo tra gli abietti; e proprio come Joker il sentimento che lascia posto all’odio a un certo punto è la pena, che poi scivola nell’orrore. Non leggete M., bevetelo! Non fermatevi sulla porta di una critica storiografica un po’ pedante. Non mi sono nemmeno accorto della dissonanza delle “telescriventi che ticchettavano”, e non sono impazzito per le sviste sulle date. Perché il succo del libro è un altro: mostrare il percorso accidentato di un uomo che voleva essere qualcuno, a qualunque costo. M. ha fatto quello che tanti storici non sono mai riusciti, né mai riusciranno a fare: togliere al dittatore la divisa e mostrarlo per quello che fu, farlo uscire dal quadro per mostrarcelo nudo. Uno sconfitto determinato in un’epoca di sconfitti rassegnati. Questo qui non è un libro di storia, è un libro per fare avere alla storia il proprio giusto posto nella costruzione della memoria comune.

 

Condivido anche gli spazi bianchi . E’ la recensione che mi sarebbe piaciuto scrivere e che non ho scritto. Sarebbe stato indispensabile scriverla anche perché credo che sia fondamentale sottrarre la discussione intorno a M. dalla diatriba sugli errori di nomi o di date su cui si è invece deragliata a partire dalla nota di Ernesto Galli Della Loggia.

La mia sensazione è che a partire da quella nota il mondo ufficiale degli storici italiani abbia maturato la convinzione che non solo non valga la pena discutere di M., il figlio del secolo, ma che abbia anche scarso interesse leggerlo.

Io ritengo, invece, che sia indispensabile leggerlo e che noi storici abbiamo molto da imparare da Antonio Scurati. Per farlo consapevolmente occorre avere chiari alcuni passaggi che ritengo ineludibili.

 

1.      Il primo passaggio da fare consiste sottrarsi dal fascino della massima milanese, «ofelè fa el to mesté» (traduco: «pasticcere, fai il tuo mestiere»). Dunque, il primo passaggio da compiere è respingere l’esortazione che Antonio Scurati smetta di occuparsi d’inquadramenti di storia e che torni a scrivere narrativa pura. I bei libri di storia sono lavoro da storici. Forse (anche se non ne sono così convinto). In ogni caso è anche necessario che abbiano una funzione; che siano in grado di incontrare una domanda del pubblico e abbiano il gusto e la volontà di considerare e di prendere sul serio il pubblico cui intendono parlare. A questo esame impietoso il libro di storia prodotto da noi storici (non mi sto mettendo fuori dalla categoria) mostra tutti i suoi difetti. Non c’entra la competenza. E’ essenziale, invece, la capacità di saper trattenere il pubblico alla pagina. Di inchiodarlo alla parola.

2.      Il secondo passaggio è chiedersi perché M. il figlio del secolo sia in grado di parlare ai lettori. Non solo. Di essere un testo che possa aspirare a lambire quel mondo dei «non lettori» costituito sia da coloro che da tempo hanno abbandonato i libri, sia, soprattutto, da coloro che ai libri non sono mai arrivati, e fra questi, una percentuale, ora non importa stabilire quanto alta o estesa, di under-18, ovvero quel pubblico che oggi, come ci ha invitato a riflettere Christian Raimo, ha anche un fascino per le suggestioni a destra. Non è solo un problema di linguaggio. E’ anche un problema di montaggio, di struttura della narrazione per quadri, di tecnica narrativa.

3.      Come abbiamo appreso a leggere alcuni nodi e snodi delle trasformazioni storiche che rimettevano in discussione un senso comune profondo? Quasi mai ciò è avvenuto attraverso e in forza di un libro di storia.

Talvolta, nella prima metà del ‘900 è avvenuto con un libro–catechismo che ha attratto un ciclo generazionale fino ad imporsi come testo che consente di rappresentare una generazione. Più spesso è avvenuto con una poesia, con un testo teatrale, con un libro di letteratura, con una foto,  o con un film.

Si possono fare molti esempi. Non è forse vero che Il Dottor Zhivago ci ha costretto a rileggere la Rivoluzione d’Ottobre più dell’opera di E. H. Carr? O che Il Gattopardo ci ha raccontato il Risorgimento con più efficacia di Giorgio Candeloro o di Rosario Romeo, o di Alberto Mario Banti (tanto per stare in anni più vicini a noi)?

Quanto Amarcord di Fellini, o Una giornata particolare di Scola, hanno consentito che ci facessimo un’idea del fascismo italiano? Di più o di meno di Renzo De Felice?

Quanta verità storica c’era e c’è in quei film? Difficile dirlo. Probabilmente c’è un’atmosfera, c’è la sensibilità e questo era esattamente la loro “potenza”. Meglio: loro capacità di essere film di storia. Non è più sufficiente?

E ancora. Rimaniamo in Italia. Prima e dopo Vajont, 9 ottobre 1963. Orazione civile di Paolini in che forma abbiamo parlato del Vajont? Quando abbiamo scoperto Tina Merlin, prima o dopo Paolini? Penso di non sbagliarmi se dico dopo.

Cos’era la consapevolezza della Francia di Vichy nell’opinione pubblica della Francia prima del film Cognome e nome: Lacombe Lucien di Louis Malle girato nel 1974? Non sono stati i processi Papon e Touvier (tra seconda metà degli anni ’80 e anni ’90 a aprire una discussione pubblica,  a dare forma alla guerra “franco-francese”. E’ stato un film a produrla. Non solo  una produzione storiografica, e una discussione storica pubblica, perché iniziasse ha avuto poi bisogno di uno storico statunitense (Paxton,Vichy France: Old Guard and New Order, 1940-1944, 1972) e di uno storico franco-israeliano (Zeev Sternhell, Ni droite, ni gauche. L’ideologie fasciste en France, 1983), perché si avviasse per davvero. Perché quella discussione pubblica assumesse la dimensione di un confronto non più eludibile e finalmente si manifestasse apertamente un confronto tra francesi sulla loro storia nazionale passata, sono stati necessari :  un regista francese di nuova generazione, uno storico della cultura statunitense e uno storico israeliano.  Solo dopo è iniziata una discussione seria. Una dimensione che noi in Italia non abbiamo mai iniziato per davvero.

Conclusione provvisoria

Il tema  non riguarda solo ed esclusivamente come si scrive il vero, ma come si produce racconto e scavo nel passato, talvolta anche molto prossimo (penso per esempio a L’orologio di Carlo Levi) in grado di riaprire i luoghi comuni nel e del presente, proprio in forza di una struttura della narrazione; per ciò che comunicano; per il costrutto letterario che propongono. Non necessariamente in conseguenza del presentare documenti o fonti rimaste fino alla scrittura di quei testi inesplorate. Ciò avviene perché quello che fanno è una modifica strutturale del “punto di vista”. Operazione che obbliga a ripensare molte, se non tutte, le conclusioni a cui si era giunti in precedenza.

Questione, inoltre, quella della scrittura narrativa, che riguarda anche – e forse soprattutto – il tema delle identità o dei sentimenti politici del nostro tempo, la capacità di fare uno scavo nell’anatomia e provare a proporre percorsi di genealogia del sentimento pubblico e delle emozioni che oggi muovono e fanno decidere (e votare) milioni di persone.

Dunque la lettura e il confronto con la struttura di M. il figlio del secolo può essere un’opportunità ammesso che si sia disposti a compiere alcuni passaggi preliminari. Una volta compiuti, restano sul tavolo molte questioni che il testo di Scurati suggerisce e che sarebbe sbagliato lasciar cadere.

Qui ne indico una e pongo due interrogativi che sono interessanti nella costruzione del libro (che ricordo è il primo di una trilogia e dunque va anche letto con una riserva da sciogliersi alla conclusione dell’opera).

Il dato che mi sembra fondamentale discutere riguarda il montaggio del volume.

Scurati procede per clip narrative collocate in ordine cronologico, ragiona per quadri, come se costruisse una sceneggiatura cinematografica (o forse ancora meglio un serial per Netflix) e in quella sceneggiatura contano appunto gli elementi che definiscono i sentimenti. Parte essenziale di quei sentimenti è definita dai gerghi (non solo le parole, ma le metafore, le immagini e con quelle i movimenti del corpo) con cui la persona/le persone “in scena” comunicano la propria persona.

Dunque al centro dunque del libro di Scurati, secondo me, sta un conflitto tra linguaggi che rinvia a forme del pensiero, a strutture di programma politico, a modi di pensare il rapporto tra fare e essere. E’ a quei conflitti  che occorre prestare attenzione: alla loro natura; alla loro dinamica; a come essi si trasformano.

Un tema che riguarda prima di tutto le modalità del discorso politico che costituisce (giustamente) uno dei temi ricorrenti di tutto il libro (è probabile che questo aspetto ritorni nei due tomi successivi). Un linguaggio che all’inizio deve scontrarsi con la presenza possente e invasiva di Gabriele d’Annunzio, figura che esce patetica dalle pagine di Scurati [valga per tutti le pagine del 25 ottobre 1922, pp. 548-550; ma anche nell’incontro con Italo Balbo, nell’agosto 1921, quando Mussolini è al suo punto più basso nel l movimento fascista dopo aver firmato il patto di pacificazione].

Il linguaggio è tuttavia la molla dell’agire politico, la struttura che ogni volta getta a terra e risolleva Mussolini e che è lo strumento che dà spessore alla politica. Accade nel maggio 1920, quando Mussolini riscrive il programma del movimento e sconfessa il programma di Piazza San Sepolcro [203-207]; si ripete nel maggio 1921 intorno alla formazione delle liste per le elezioni [384-388]; poi al congresso di fondazione del partito, dove Mussolini entra solo e ne esce (due giorni dopo), duce, definitivamente [pp. 430-435]; ritorna nei giorni convulsi dello “sciopero legalitario” dell’agosto 1922 [pp. 489-510] e poi nei giorni che dalla metà di ottobre conducono alla marcia su Roma [pp. 519-599].

E’ il linguaggio del corpo di Benito Mussolini che sta al centro di queste pagine. Un linguaggio che si struttura sulla dimensione politica dove conta la parola che si dice in pubblico e come si  entra in sintonia con il proprio pubblico. Non è un’invenzione di Scurati, ma indica che Scurati ha letto di storia e di storiografia, secondo me.  La parola pedagogica  con cui ci si rivolge ai propri affiliati perché crescano politicamente è una funzione incantatrice e fascinatoria della parola che molti anni fa lo storico George Mosse, nel suo La nazionalizzazione delle masse,  aveva còlto come caratteristica della politica nuova dei movimenti di massa e totalitari del Novecento, fin dalla mobilitazione nazionalista degli anni ‘10 (Sbaglio se penso che quelle pagine – che nel suo libro Mosse condensa nel capitolo dal titolo “la nuova politica” – siano state una lettura che Scurati ha praticato e meditato?)

Una parola di cui Mussolini è grande maestro e retore  (e qui credo Scurati colga nel segno) che dà luogo a:  forme struttura, ritmo. Il risultato è un vocabolario che si forma in un tempo abbastanza breve, e che nelle sue linee essenziali e nelle sue parole è definito già nel discorso di Modena del 28 settembre 1921 [p. 422]

Ma non è solo l’uso della parola, è il corpo fisico, il corpo vero e proprio di Mussolini, con le sue molte storie di letto extraconiugale che segnano le tappe della costruzione dell’immagine di sé. Un’immagine che pone al centro non la conquista, ma la voracità.  Margherita Sarfatti è una, ma poi insieme ci sono molte altre donne che ogni volta sono parte della stessa scena: una foga di sesso, che complessivamente sembra caratterizzato da una regola ferrea. Ovvero: consumare tutto e subito, perché il tempo non c’è (la soddisfazione reciproca, comunque, è un dettaglio).

Ma soprattutto il libro è anche una grande giostra di personaggi che entrano e escono di scena, ciascuno con i propri vizi e virtù, spesso con una dimensione di scontentezza che anch’essa è molto “cinematografica”.

Sono per esempio le pagine in cui compare Margherita Sarfatti [pp. 322-325; 628-630]; Amerigo Dúmini e Italo Balbo [per tutte pp. 340-351] anche se personalmente trovo ineguagliate le pagine in cui il protagonista in scena è Leandro Arpinati [pp. 159-161; 192-196; 268-270], uno degli squadristi cui forse, anche per le vicende biografiche successive, molto più di altri (certamente molto più di Roberto Farinacci, che non ha nemmeno la dimensione tragica della storia) meriterebbe una biografia ragionata.

Ma anche le pagine in cui Scurati tratteggia la personalità inquieta di Giacomo Matteotti e della moglie Velia Titta Matteotti fino alle settimane successive al suo assassinio e poi al ritrovamento del suo corpo [240-243; 437-441; 620-693]; o anche le poche pagine che dedica a Filippo Turati e le citazioni acute delle lettere di  Anna Kuliscioff (“l’unico uomo del socialismo italiano”, come di lei scriveva a Friedrich Engels Antonio Labriola) [pp. 281-282; 662-665]; e infine le pagine ironiche (secondo me da leggere in parallelo con quelle che hanno al centro Gabriele D’Annunzio) dedicate a Nicola Bombacci, il “Lenin italiano” l’uomo evangelico dei comunisti italiani [pp. 76-79; 198-201; 699-703], una figura destinata ad uscire di scena nel 1923, per poi ritornare nella seconda metà degli anni ’30 quando entrerà nelle file del Partito nazionale fascista per morire con il Duce lungo la strada per Dongo  e fare la sua ultima apparizione pubblica a P.le Loreto il 29 aprile 1945 (probabilmente lo incontreremo ancora nei volumi di questa trilogia).

Due questioni rimangono fuori da M. il figlio del secolo. Entrambe riguardano la scansione temporale.

Prima questione.

Scurati sceglie di iniziare la sua storia da Piazza San Sepolcro, ovvero dall’atto fondativo del movimento dei fasci (23 marzo 1919). È una scelta plausibile, ma se il tema è la definizione di un linguaggio della politica o più propriamente la spaccatura tra una dimensione argomentativa della politica rispetto ad una emozionale e motivante, allora quella scena iniziale a mio avviso va retrodatata di quattro anni e mezzo e collocata nell’ottobre 1914, per la precisione il 18 ottobre 1914, il giorno in cui Mussolini pubblica il suo editoriale sull’ “Avanti!” in cui rompe con la linea del suo partito in merito alla neutralità.

Scena determinante per molti aspetti. Per esempio non si capirebbe il senso del suo primo intervento da deputato, il 16 maggio 1921 [qui pp. 402-405, ma soprattutto nell’accenno rivolto ai comunisti, p. 403] senza quella scena di conflitto tra ottobre e novembre 1914. Allo stesso tempo non si capirebbero molte altre scene che descrivono l’atteggiamento incerto e talora ondivago (senza alcuna intenzione di trapasso politico, sia chiaro) che conducono rispettivamente Mussolini e Antonio Gramsci ad ascoltarsi reciprocamente, negli anni successivi. E’ un tema sui cui  ha lavorato Leonardo Rapone, con competenza ma su cui non sarebbe improprio continuare a scavare.

Seconda questione.

Riguarda l’andamento temporale in cui si presenta questo volume e su cui si costruiranno gli altri due volumi della serie.

Perché il volume si chiude al discorso del 3 gennaio 1925 (perché non nel novembre 1926 quando s’instaura definitivamente la dittatura)? Quali intervalli temporali caratterizzeranno gli altri due tomi? Con quale logica? Perché?

Scurati non ha dichiarato (o almeno io non l’ho trovato da nessuna parte) la struttura temporale con cui intende costruire il suo libro su Mussolini. Questa scansione temporale è invece importante ed è parte della costruzione del trittico. L’immagine complessiva non dipende solo da questo dato, ma non è un dettaglio e forse, da quella dimensione di scansione temporale dipende anche come si ricostruisce complessivamente il senso di questa storia.

Dare e fissare gli assi della storia è importante. Per esempio: perché col tempo Beppe Fenoglio ci sembra ancora attuale? Perché le storie che derivano dal mondo di Johnny ci sembrano più capaci di parlare che non la Milano di Uomini e no di Vittorini? Sbaglio se affermo che insieme a Cassola è l’unico narratore della Resistenza che non fa chiudere la Resistenza al 25 aprile? E non fermarla a quella data che cosa significa, se non ridiscutere oltre al tempo, anche le forme e le figure con cui abbiamo assimilato storia e abbiamo riflettuto o ci siamo formatti un’idea della politica?

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