Storia
«Mostrano sempre l’immagine. Ma non raccontano mai la storia»
E’ probabile che da oggi di Slobodan Praljak, il generale croato che si è avvelenato nella corte del Tribunale dell’Aia ascoltando la sentenza a venti anni di carcerazione diventare esecutiva, rimanga solo il fermo immagine di quando assume il contenuto del veleno.
Con quel gesto Slobodan Praljak ha dichiarato due cose.
La prima, con quel gesto dichiara di non riconoscere il giudizio di altri. La seconda: con quel gesto di protesta, tutta la vita di prima scompare.
La memoria che si costruisce a partire da quel momento, o l’immagine di sé a futura memoria, elimina cosa sia stata una vita prima di quel gesto. Da ieri Slobodan Praljak è un martire del nazionalismo croato. Resta il gesto istrionico dell’atto della morte, scompare il resto.
Non sarebbe la prima volta.
Di altre storie di vita è rimasto solo un fermo immagine. Talvolta quel fermo immagine, anziché “salvare” il passato e consegnarlo al futuro, è anche un modo per eliminare la storia che quella vita testimonia. Il processo che occorre fare è, allora,riuscire a uscire dall’immagine e ricollocarla in una sequenza e dare a quella scena un significato.
Credo sia un tratto rilevante che peserà su come ragioneremo di ’68 a cinquant’anni di distanza.
Nel cinquantenario del ’68, riemergeranno molte immagini.
Del resto quello fu il primo evento mondiale in cui le parole, per la prima volta contavano se si vedevano e se si ascoltavano. Insieme, per la prima volta, in diretta contava anche il gesto del corpo. A differenza delle foto eroiche con cui tutto il Novecento, aveva accompagnato e aiutato a definire l’immaginario collettivo a partire dalla prima guerra mondiale, non era la caricatura o la ricomposizione della scena attraverso le tavole dei giornali che raccontavano in differita gli eventi. Quella primazia dell’immagine improvvisamente esplodeva perché non era più l’istantanea eroica o che si associava al grande evento della storia.
Cogli anni ’60 e soprattutto col ’68 erano gli anonimi che facevano la storia, che entravano nel circuito dell’immagine pubblica.
E ci entravano in forza del gesto che facevano, e non perché erano famosi.
Scegliamo allora una scena, per molti aspetti iconica.
Città del Messico, 16 ottobre 1968 ore 20.30 circa: premiazione dei 200 metri di atletica. Forse la foto più famosa di quelle olimpiadi, ma complessivamente la storia meno raccontata.
La storia non solo di Tommie Smith e John Carlos, e i due afroamericani che fanno il gesto dei Black Panther, ma anche quella di Peter Norman, l’australiano bianco che per molti è un “intruso” e che solo molti anni dopo si saprà essere stato solidale in quel momento. Una figura quella di Peter Norman che Gianni Mura molti anni dopo ebbe il merito di ricostruire : un uomo che da solo dovette affrontare l’opinione pubblica del proprio paese che, al suo ritorno in Australia, non gli perdonò quel gesto.
Molti anni dopo John Carlos dirà che se per lui e per Smith nonostante le loro solitudini e le amarezze, comunque era esistito un pezzo di società e una porzione di America che si erano non solo rispecchiati in loro, ma anche avevano rispetto per la loro scelta, così non è stato per Peter Norman. A lungo osteggiato in patria, punito per la sua scelta di solidarietà a Smith e Carlos, il suo gesto di solidarietà è stato riconosciuto come degno di rispetto solo nel 2012 (quattro anni dopo la sua morte). In tutto quel tempo, dal 1968, Norman aveva subito ingiustizia, esclusione, solitudine.
«Mostrano sempre l’immagine. Ma non raccontano mai la storia» ha detto un giorno Carlos.
E’ indubbia la forza di quell’immagine (forse pari per forza ed efficacia alla foto del Che di Aberto Korda) e tuttavia la storia non è meno forte. In quella storia c’è il contorno immediato, per esempio gli scontri alla piazza delle tre culture a Città del Messico il 2 ottobre 1968, forse il racconto più vivido che Oriana Fallaci abbia mai scritto (ora riproposto nel suo 1968, Rizzoli), ma poi c’è la storia lunga dell’America raccontata dal punto di vista di chi provò a rompere il quadro e si trovò immediatamente al margine. Questa seconda storia, però non sta nel’immagine e a lungo è rimasta sotto traccia.
Questa storia è oggi un libro Trentacinque secondi ancora di Lorenzo Jervolini (66thand2nd). Una storia che muove dall’icona, ovvero da quella foto, risalendo indietro all’infanzia, alla storia delle famiglie e di Smith e Carlos, per poi spingersi molto in là negli anni fino a noi.
In mezzo attraverso, le loro vicende personali, è l’America il vero protagonista di questo libro.
Ovvero l’America della rabbia delle periferie e dei ghetti americani, quella della provincia americana. Ma anche l’America in cui non sempre lo scontro o la solitudine divide verticalmente in due la società a seconda delle appartenenze per nascita.
Così fu anche a Città del Messico, in quel 16 ottobre quando improvvisamente l’altra America entra di forza nello schermo in mondovisione e, senza dire una parola (di nuovo la capacità di potenza del gesto), si prende il centro della scena.
Ma la sua forza fa in modo che, proprio perché non entra la vita concreta, si perdano molte cose che invece sarebbero anche istruttive per non cadere dentro il mito.
Almeno due aspetti, oltre all’altra storia oltre il podio, quella di Peter Norman sono interessanti che stanno oltre quel fermo immagine e che il libro Iervolino ci restituisce in tutta la sua forza.
Il primo. 1 febbraio 1969. Julian Bond, parlamentare democratico dello Stato della Georgia coordina una serata della sezione di San Jose della National Associaton for the Advancement of Colored People. Duemila persone dell’America coloured che hanno avuto successo venuti per omaggiare Tommie Smith e John Carlos. Tutti applaudono quando si parla di discriminazione, di riscatto, di orgoglio. Ma a un certo punto Julian Bond, nell’entusiasmo generale, dice, rivolgendosi alla platea che fino a quel momento ha applaudito: “a voi che rappresentate il meglio dell’imprenditoria afroamericana e del successo in questa città, [chiedo] di alzarvi dalle vostre sedie , di abbandonare i vostri tavoli , di dimostrare solidarietà e salire qui sul palco per ricambiare quello che questi due neri esemplari hanno fatto per noi: vi chiedo di farvi avanti e di offrire un posto di lavoro a Tommie Smith e John Carlos”.
In quel momento cambia la scena e significativamente non accade nulla: nessuno si alza e improvvisamente cala un silenzio glaciale. La solidarietà fondata sull’origine o l’appartenenza etnica o di origine, ci dice Iervolino, attraverso questa scena. La solidarietà non costituisce un dato scontato. La solidarietà non mancherà nel tempo ai due, ma non esiste una solidarietà che di per sé sia originata dal genere. La solidarietà è sempee un atto che nasce da una decisione Non è la conferma di un’identià, è il risultato di una scelta consapevole. Non è conseguente all’appartenenza per nascita a un gruppo
Il secondo. Come si può provare a ripercorrere una storia, e a consegnarla alla memoria, senza produrre mito. La storia è quella che Iervolino racconta di come dopo molti anni, quando quella storia sembrava smarrita, improvvisamente grazie a un giovane studente di famiglia messicana, ma con cittadinanza statunitense, nato il 16 ottobre 1968 nello stesso giorno della corsa, quella storia riemerga. Il tema è non trasformarla in icona, non ridurla alla funzione di “fare memoria”, ma marcare un luogo che ricordi una scena e segni un percorso.
E’ la storia che Iervolino ricorda di come si giunge nel 2005 alla edificazione di una statua nel prato davanti alla Martin Luther King Library alla San Jose State University. Il tema è appunto come una generazione successiva si riappropria di una storia, la rivive non come mito, ma come patto per il futuro. E’ una storia importante perchéé dice che il passato non è un territorio di culto, ma è un’opportunità se ritrovato in un percorso di definizione e costruzione di nuova sensibilità.
Ogni generazione ha la sua battaglia da combattere dice alla fine di questo libro Tommie Smith.
Perciò, aggiunge, “non ci può essere una vittoria finale”. E conclude: “Se non la si guarda così, quando ci si illude di aver raggiunto un traguardo, ci si accorge di essere solo precipitati, ancora una volta, al punto di partenza. Perché non è importante che tu generi una vittoria definitiva, ma che tu combatta le battaglie per cui la tua generazione è responsabile”.
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