Storia

Mohammad Ali, il pugile che «usò» la sua grandezza per i diritti degli altri

4 Giugno 2016

Difficile credere che sia morto un immortale come Maohammad Ali, l’uomo ch’ebbe due nomi altrettanto famosi a cavallo tra quella America tormentata e una nuova vita scandalosa che allora improvvisamente impose al mondo attraverso l’identità musulmana. La prima questione da porsi, adesso che lui, il più grande atleta di sempre, non c’è più, è estremamente semplice: sarebbe possibile oggi un cambio di identità di quella portata senza pagare  alla società un dazio insostenibile? Nessuno si è mai traghettato così «semplicemente» da Cassius Clay che era, a quel nuovo pugile altrettanto e molto più consapevole che poi divenne, con l’impetuosità di una leggenda costruita sull’impresa sportiva e umana. Perché non sarebbe onesto dimenticare che è sempre di pugni tirati su un ring che stiamo parlando, quando la boxe era l’arte nobile di sopravvivere al proprio destino, prima ancora che di imparare la leggerezza e la terribilità dello scontro fisico su un quadrato dalle corde tese.

Dovremmo proprio parlare di leggerezza quando parliamo di Ali e non solo perchè   su quel perimetro impalpabile e avvolgente ch’erano i suoi modi “gentili” di circuire l’avversario costruì la sua leggenda di pugile, ma soprattutto perchè fu in grado di non abbandonare mai, anche nei momenti più drammatici di quella America in cerca di diritti, quella «alternativa» che lo sport magicamente ti offre anche attraverso i suoi gesti più estremi. Che è poi mettere insieme l’impresa sportiva con la rivendicazione sociale, una sorta di miracolo laico che solo un santone del ring e della vita come Ali poté incarnare in modo plastico, lasciando consapevolmente il ring per il rifiuto del Vietnam. Essendo credibile soprattutto, e trasformandosi in un’icona ovviamente per i neri, ma trascinando in quell’avventura interi eserciti di ragazzi bianchi che gli riconobbero una primazia del gesto di rottura all’interno del paludatissimo mondo dello sport e del pugilato miliardario in particolare.

Se solo pensate al suo capolavoro del ’74 a Kinshasa. Che solo a impresa terminata divenne veramente sportivo, quando sospinto dagli spettatori che aveva portato dalla  sua nei mesi precedenti – «Ali, bomaye!», Ali uccidilo, – egli riuscì nell’impresa di riprendersi il titolo scaraventando al tappeto all’ottava ripresa quella montagna di George Foreman. Quell’incontro, soprattutto la preparazione a quell’incontro, costituirono il punto centrale dell’impresa sportiva e sociale di Ali, quando gli riuscì  cinicamente di capolvolgere l’assunto secondo cui ogni nero è fratello di un nero. No. Lui pose la prima pietra a una via del tutto originale, consegnando Foreman, ch’era meno scaltro e pronto di lui, alle sirene molli del capitalismo, lo accusò d’essere un nero al servizio dei bianchi, e così riportando su di sè l’intera attenzione di chi – vessato – crede nei diritti delle minoranze e nel sacrificio di chi si batte per ottenerli. Fu così che gli zairesi, sotto il regime di Mobutu, presero le sue parti sospingendolo a una vittoria memorabile. (Norman Mailer fu uno splendido narratore in «Quando eravamo re»).

Ci ha lasciato davvero il più grande di sempre. Quell’atleta, quell’uomo, che sarà giusto raccontare ai più piccoli perchè possano comprendere dove lo sport e la vita dei diritti comabaciano perfettamente, sino a non rendere più distinguibile l’uno dall’altra.

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