Storia
Mi rivolto, dunque siamo… soli
Forse conoscete la citazione di Corrado Alvaro: “La disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.
Leggendo il saggio di Paolo De Chiara “Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie” (Giulio Perrone editore, p. 297) la cattiva notizia è che questa affermazione può essere integrata e caricata ancora più negativamente: il dubbio diventa probabilità e la vita onesta risulta non soltanto inutile, ma svantaggiosa, se non addirittura fatale.
Con uno stile piano e un ritmo da page-turner De Chiara racconta dieci storie di testimoni di giustizia. Testimoni, non collaboratori.
È importante soffermarsi su questo punto. Non si tratta di criminali che dopo essersi macchiati di atroci delitti rivedono la loro condotta e si pentono, barattando informazioni su ex colleghi malavitosi con il miglioramento della propria condizione detentiva. Parliamo di onesti cittadini, di testimoni oculari, di imprenditori che non si sono piegati alle estorsioni, di persone che pur provenendo da contesti mafiosi hanno deciso di emanciparsi e denunciare.
Parliamo di Gennaro C, ex carabiniere ausiliario, che diventa addetto alla sicurezza di una società edile legata alla famiglia camorrista Vuolo e che scoperchia le anomalie nella costruzione e nella manutenzione di strutture pubbliche. O di Giuseppe e Domenico Verbano, fornai calabresi, che non cedono alle pressioni della Ndrangheta e contribuiscono alle indagini per l’arresto di Pietro Labate, il Gheddafi del Sud, uno dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia.
Parliamo di storie che si concludono con la morte, sparizioni, omicidi, finti suicidi: di Lea Garofalo, la fimmina ribelle, rapita dall’ex e carbonizzata, di Domenico Noviello, il leone anti-camorra, giustiziato con oltre trenta colpi di arma da fuoco, di Cetta Cacciola, costretta a ingerire dell’acido dopo avere ritrattato le precedenti deposizioni.
Ogni capitolo del libro di De Chiara è uno schiaffo alla speranza, una triste conferma di uno Stato malato su due livelli: debole nel combattere le strutture malavitose, radicatissime nell’economia e nella mentalità di massa, e incapace di proteggere chi ha scelto di non soccombere, di non asservirsi alle mafie.
Su questo punto, forse il sottotitolo di De Chiara è troppo semplicistico: la sfida non è a due. Non è “eroe contro mafia”, ma è eroe contro mafia, Stato e popolazione civile. Eroe è senz’altro la definizione più appropriata per chi decide di testimoniare. Non sarebbe più semplice rimanere omertosi quando lo Stato non garantisce un’esistenza dignitosa, quando il tenore di vita dei testimoni si abbassa sotto la soglia della povertà, le richieste d’aiuto non vengono considerate? Quando i NOP trattano i testimoni alla stregua dei delinquenti o li apostrofano come infami?
Torna in mente “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, i due spari sulla piazza, il corpo del passeggero che cade e improvvisamente l’autobus si svuota e nessuno ha visto niente e il panellaro è sparito, e conducente e bigliettaio non sanno citare neanche un testimone.
Se capitasse a uno di noi, di esser uno dei tanti che abbandonano l’autobus?
Il punto è lì, in quella fuga collettiva come scelta individuale. Potrebbe avvenire tutto l’opposto se tutti scegliessero di testimoniare.
Forse bisognerebbe proprio evitare l’eroismo, l’isolamento, la particolarità. E se servono le reiterate parole di Paolo Borsellino o di Giovanni Falcone, su quanto sia importante superare la paura, altrettanto utili sono le indicazioni matematiche di Tano Grasso su come ha organizzato la sua associazione antiracket a Capo d’Orlando. Grasso prima di denunciare l’estorsione ha creato una rete. Poi è andato dalle autorità.
D’altronde non era questo che intendeva Camus ne L’Homme revolté, quando mette sulla bilancia la morte e la libertà?
La rivolta, quella che funziona, deve essere una scelta solidale fino a poter dire: “Mi rivolto, dunque siamo”.
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