Medicina

Mengele, la reductio ad Hitlerum e la pseudoscienza nazista

23 Febbraio 2020

Su Il Foglio dell’1 febbraio 2020 Giulio Meotti pubblica un articolo dal titolo «Professor Mengele». Il sottotitolo invece spiega quella che dovrebbe essere la chiave ermeneutica dell’articolo: Non solo un assassino. I grandi scienziati del tempo facevano a gara per lavorare al suo fianco. Una nuova biografia del dottor morte». E proprio una nuova ricostruzione della parabola biografica del medico SS è all’origine dell’articolo in questione. Scritta da David Marwell, ex direttore del Museo del patrimonio ebraico di New York, dal 1985 impegnato nell’ufficio che si occupava dei criminali nazisti al Dipartimento di stato e che gli diede la caccia fino in Brasile, dove Mengele è morto nel 1979. Il libro è Mengele: Unmasking the Angel of Death, uscito per W. W. Norton & Company, e si occupa tra le altre cose della carriera, degli studi e dell’attività scientifica di Mengele. Ciò dà lo spunto a Meotti per parlare non del «mostro mitologico» ma «dello scienziato». E si chiede così «chi fosse quel medico con una laurea in medicina e una in antropologia, un uomo di grande cultura, nato in una famiglia cattolica, entrato molto tardi nelle SS, che prese parte alla selezione di centinaia di migliaia di esseri umani e che, quando nel 1944 scoppiò il tifo nel “campo ceco” di Auschwitz, mandò alla morte col gas tutti i detenuti, risolvendo così il problema». Nel cercare di rispondere il contributo – che come è stato sottolineato riprende passi di articoli tratti da altre testate (come questo) – utilizza un andamento retorico che sollecita nel lettore, in maniera irriflessa, il frame della riabilitazione del criminale in nome del suo valore come studioso. Tutto ciò è rafforzato dal sottotitolo de Il Foglio che, in modo decisivo, indirizza e provoca l’indignazione del lettore.  Risultato: reazioni disgustate da più parti e, come spesso accade in queste circostanze, un’occasione persa per cercare di storicizzare radicalmente la questione della medicina coercitiva nazista entro cui si situa the Angel of Death e il contesto delle tragiche sperimentazioni che lo videro protagonista.

Come ha dimostrato Paul J. Weindling, storico della medicina presso la Oxford Brookes University, autore di Victims and Survivors of Nazi Human Experiments: Science and Suffering in the Holocaust, la ricerca medica coercitiva nazista, quella paradigmaticamente praticata da Mengele, non può essere letta, come vorrebbero in tanti, nei termini di  un caso di «pseudo-scienza» (in Italia ne ha scritto in maniera intelligente anche Francesco Cassata nel suo Eugenetica senza tabù. Usi e abusi di un concetto). Tale categoria, evocata anche nelle reazioni indignate che hanno fatto seguito all’articolo de Il Foglio, per sancire una presunta distinzione ontologica tra la Scienza e gli esperimenti dei nazisti, è assolutamente inadeguata e decontestualizzata. Piuttosto deve essere messa radicalmente in discussione l’idea – adottata già a Norimberga – che brutali uomini come Mengele abbiano rappresentato gli ingranaggi di un meccanismo perverso, con a capo Hitler e Himmler  – tanto per citare due emblemi -, che avrebbe fatto deragliare la scienza dal suo percorso naturale. La realtà è molto più complessa, magmatica e disarticolata. Medici come Mengele si inseriscono piuttosto in un contesto più tragico e sistematico legato alla nazificazione della ricerca scientifica in Germania. Non una deviazione rispetto a un percorso proteso verso una mitica idea di bene, ma una sistematica ridefinizione della stessa idea di “bene” per la razza ariana a cui la ricerca scientifica si è adeguata. E ciò, tra le altre cose, mostra in maniera evidente il carattere sociale della ricerca scientifica, elemento oramai acquisito dalla storiografia più avveduta e dalla sociologia della scienza (ne ha scritto in maniera intelligente, tra gli alti Massimo Bucchi qui), ma che fa fatica a raggiungere l’opinione pubblica. Come dimostrano le reazioni all’articolo di Meotti, invece, c’è ancora una evidente difficoltà a comprendere che discutere di scienza significa interrogarsi sui rapporti tra la ricerca, i suoi risultati e il più ampio contesto sociale in cui matura. Così, nel caso in questione, si è ancora una volta palesata quella reductio ad hitlerum che semplifica e decontestualizza la realtà nazista ma, soprattutto, ne impedisce un’adeguata storicizzazione. Quest’ultima, invece, si rende necessaria per contestualizzare la ricerca medica nazista alla luce della razionalità che l’ha orientata (altro che «pseudoscienza»), riflesso di un progetto chiaro  – ancorché terribile – coincidente con la purificazione razziale perseguita dai nazisti. A tale progetto non parteciparono solo celebri e iconiche figure come Mengele, con tutte le caratteristiche per rappresentare il rassicurante paradigma dell’eccezione, ma centri di ricerca, medici, dipartimenti universitari, aziende chimiche e farmaceutiche, ricercatori. Fu una società nel suo complesso a mobilitarsi per rendere possibile il progetto di igiene razziale nazista. Alla luce di tutto questo, appare evidente che per comprendere adeguatamente le atroci sperimentazioni mediche naziste non ci si possa fermare soltanto al ruolo di alcune figure rappresentative. Bisogna piuttosto effettuare un esercizio di storicizzazione radicale, evitando le decontestualizzazioni, la reiterazione di parole d’ordine e le reazioni irriflesse. Questo però significa varcare una frontiera morale – a cui la tradizione sta dietro almeno da Platone in avanti – che obbliga a rappresentare il male con adeguate cornici di biasimo e condanna. Diversamente significherebbe legittimarlo. Tale inespressa, ma acquisita, ingiunzione risponde a un canone teologico che con il metodo storico dovrebbe avere poco a che fare e che, tra le altre cose, prevede un lessico e soprattutto un modo di pensare il fenomeno che, di fatto, lo tiene separato dal tempo storico e ne prescrive la descrizione attraverso gli attribuiti canonici delle grammatiche monoteiste (l’unicità, l’Evento, il male assoluto). Sullo sfondo, dunque, una rappresentazione teologica della realtà in cui vige lo scontro tra il Bene e il Male assoluto e in cui i carnefici non sono figli di un certo tempo, ma figure iconiche separate dal resto degli uomini, incarnazioni di una realtà eccezionale e, proprio per questo, in fondo rassicurante.

Tale teologia secolare che continua ad abitare, e indirizzare, le nostre rappresentazioni e reazioni dovrebbe essere il principale obiettivo decostruttivo di ogni seria problematizzazione sugli usi e abusi pubblici del discorso storico. E questo perché impedisce la reale riappropriazione del senso delle situazioni estreme, e archetipiche, come quella di cui ci stiamo occupando. Nello specifico ciò si traduce nell’impossibilità di portare alla luce nel dibattito pubblico le specificità della ricerca medica nazista, ma anche le continuità e le rotture con il presente. Così, contrariamente da quanto creduto, questo sguardo a-storico non riesce di fatto a salvaguardare alcuna morale e non preserva nessuna “lezione del passato”, piuttosto rende opaca e inutile la comprensione del fenomeno, impedendo alla collettività di farci fino in fondo i conti. E di fatto predisponendo le condizioni patologiche per il suo ritorno traumatico.

 

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