Storia
Marc Bloch. La storia siamo noi
Credo che il miglior modo di fare memoria sia stimolare pratiche e rompere “luoghi comuni” Per questo è importante che in prossimità dell’80° anniversario della morte di Marc Bloch (sarà il prossimo 16 giugno) esca una nuova edizione di un suo libro.
La nuova edizione di Apologia della storia a cura di Massimo Mastrogregori ha due meriti.
Il primo. E’ una iniziativa editoriale volta a ricordare il lavoro di uno grande storico. L’edizione a cura di Mastrogregori ricostruisce i capitoli mancanti, individuati in base al piano dell’opera redatto dall’autore e agli appunti preliminari, attraverso i materiali – editi e inediti – che aveva dedicato ai singoli argomenti.
Il secondo. Valorizza l’operazione storiografica a cui si era dedicato Bloch nel tempo della sua scelta resistenziale: assumere la storia come una disciplina inquieta. Non è né una “vulgata”, né la messa in narrazione del passato, né solo raccolta ordinata di fatti. E la valorizza non per un rimanere fedele al progetto dell’autore,maperchéquella esigenza non ha cessato di essere un imperativo anche per noi,oggi.
Il tema è proporre la storia come quel terreno che consente di dare un senso alla propria dimensione civile di cittadino.Ovvero: praticare la conoscenza storica come quel terreno dove il governato cessa di essere suddito e si fa cittadino consapevole.
Ricordo che Bloch stende le sue note che poi confluiscono in Apologia della storia, negli anni della sua condizione di uomo perseguitato perché ebreo nella Francia di Vichy e, poi, di resistente, scelta che compie all’inizio del 1943.Poi l’arresto nel marzo 1944 da parte degli occupanti, le torture fino alla sera del 16 giugno 1944, quando con altri 30 viene prelevato dal carcere “Montluc” a Lione, fatto salire su un camion. Il viaggio dura circa un’ora e si conclude a Saint-Didier-de-Formans. Gli uomini vengono tutti fatti scendere. Poi sono fucilati.
Afferma Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (§ 4.002) che “Il linguaggio traveste i pensieri”. In precedenza, nelle sue Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Wittgenstein aveva sottolineato come compito dell’interprete fosse “dissodare l’intero linguaggio”.
Non considero questa suggestione in relazione a una presunta verità che il linguaggio impedirebbe o nasconderebbe, verità che, dunque, si tratterebbe di individuare andando oltre il costrutto verbale e l’atto enunciativo. Il linguaggio obbliga a una attività ermeneutica. Più che un veicolo è un velo.
Il tema che pone la sfida del linguaggio è come si descrive il passato e come lo si possiede. Il tema non è la verità in sé. È, la possibilità di possedere la verità. Ma che anche risiede nel rapporto tra il linguaggio che si usa, e ciò a cui allude una narrazione, che cosa essa evoca da parte di chi la usa, che cosa suscita in chi la vede o la legge – in breve ne “fruisce” e “la consuma” e che tipo di domande deve attivare chi dopo, in altro contesto e in altro tempo, eredita quel testo, ma non ha più le chiavi immediate per comprenderlo, nel tentativo di andare oltre l’enunciato descrittivo. In altre parole quali supporti e agganci occorre predisporre e “individuare” perché quel testo non resti “muto”.
È esattamente la sfida che Bloch riassume nella sua Apologia della storia perché la realtà che ha davanti (la Francia occupata, il nazismo trionfante, l’esaltazione nazionalista, il razzismo crescente, l’odio per lo straniero,…) chiede che si lavori per costruire uno strumento in grado di contrastare quei sentimenti. Ma ciò che lo muove non è solo l’urgenza di una condizione esterna.
Negli anni Bloch è venuto affinando una sua sensibilità.
Da tempo (almeno dall’inizio degli anni ’30) è convinto che le istituzioni umane siano delle realtà di carattere psicologico e che un gruppo umano, una classe sociale esistano per l’idea e per l’immagine che danno di se stesse a se stesse. Questo perché se la storia umana è comprensibile se affrontata come storia della mentalità
Ne discende che il racconto della storia non è elencare fatti e metterli in ordine. Il racconto della storia è misurarsi con il carattere multiplo della realtà umana. Dunque ricostruire la scena della storia vuol dire pensare per problemi.
Nel caso della storia della mentalità significa non pensare per compartimenti a lato o accanto ad altri compartimenti (come la storia politica, la storia economica o la storia delle istituzioni), ma affrontare la storia di come le persone (singolarmente e quando si riconoscono appartenenti a un gruppo) raccontano se stesse e soprattutto il valore identitario che affidano a quella ricostruzione. Una suggestione che Bloch riprende da uno studio di Maurice Halbwachs.
Storia della mentalità implica caricarsi di domande per cercare di mettere in ordine e dare senso o spessore a comportamenti, convinzioni, decisioni e azioni in un tempo, non solo per capire quel tempo (e con ciò le paure, che lo connotano, per esempio), ma darsi un profilo di domande che riguardano il nostro tempo ora.
«Il virus della Peste Nera – scrive Bloch – fu la principale causa dello spopolamento dell’Europa, Ma l’epidemia poté propagarsi così rapidamente solo per certe condizioni sociali, e quindi mentali, psicologiche, nella loro natura profonda: gli effetti economici e morali della “ grande mortalità”, che innanzi tutto ci interessano, si spiegano solo con predisposizioni precedenti, specifiche, dell’intelligenza e della sensibilità collettive» [Apologia della storia, p. 311].
Così tanto per capire che nel febbraio 2020 non ci ha agguantato l’ultima figura del Medio Evo o un complotto. E che se vogliamo capire qualcosa è al nostro bagaglio mentale, culturale, in atto allora (e anche ora, aggiungo), comunque attivo e operante nella nostra mente, che occorre prestare attenzione e volgere lo sguardo.
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