Storia
Mai mollare. Eduard Samuilovič Kuznecov, o dell’ostinazione come virtù
Se mai ci fossimo illusi che finito il sistema sovietico sarebbe finita la persecuzione ai dissidenti, la sentenza che in questa settimana ha salvato Sergej Khadzhi Kurbanov, condannato a 20 anni di detenzione per l’omicidio di Anna Politkovskaja o ora graziato perché diventato martire per la guerra di liberazione dell’Ucraina ci ha tolto ogni dubbio.
Chiedere giustizia per Anna Politkovskaja non è possibile è, prima di tutto, inutile. E lo è perché non possiamo pensare che un sistema faccia il processo a se stesso. Quel sistema, anche quando usa parole che si presentano come «amiche» ha a fondamento di sé il principio che il cittadino vada prima di tutto punito. Un processo che è reso possibile giocando sempre sul «doppio», su una condiscendenza e una «cura» che si presenta come materna, ma in realtà è sempre matrigna.
La storia della pena inflitta a Kostja Carev che Eduard Samuilovič Kuznecov racconta nel suo diario (Parole trafugate, Guerini) alla data del 29 ottobre 1979 è esemplare.
“II giudice istruttore ascoltò con pazienza e paterna benevolenza il confuso racconto delle paure che avevano spinto Kostja a un crimine tanto strano. Ma se tu fossi finito nella Germania federale, gli disse, ti avrebbero immediatamente trascinato nel controspionaggio, lo sai bene. Certamente, assentì Kostja. E tu, continuò il giudice, non hai nemmeno distrutto il libretto militare, non l’hai né bruciato né strappato. Dunque avrebbero saputo il numero del tuo reparto. Proprio così, ammise Carev. E dimmi onestamente, da bravo ragazzo russo: avresti nascosto il nome dei tuoi comandanti, il funzionamento delle armi, mitragliatrice o altro, non avresti raccontato qualcosa sulla vita della guarnigione? Quelli sanno far parlare, sai… Kostja fu costretto ad ammettere che certamente avrebbe parlato di tutto questo. Il giudice istruttore si mostrò addoloratissimo per tanta mancanza di princìpi e tanta arrendevolezza, e alle ansiose domande di Carev su che cosa gli avrebbero fatto rispose che forse le cose non sarebbero arrivate fino al battaglione disciplinare, se la sarebbe cavata con una quindicina di giorni agli arresti, un solenne rimprovero al cospetto del battaglione e il trasferimento in un altro reparto, questa volta in Russia. Kostja se ne dichiarò addirittura lieto; il comandante, infatti, non lo avrebbe lasciato vivere dalla vergogna: macchia sulla collettività, perdita del diritto alla bandiera rossa che premia il miglior reggimento, e così via. Il tribunale militare gli diede dieci anni per tentativo di tradimento della patria e fuga nella Germania federale, dove intendeva consegnare allo spionaggio nemico segreti militari”.[pp.26-27]
Kuznekov scrittore e giornalista dissidente, arrestato nel 1961 e condannato a sette anni di reclusione per propaganda antisovietica. Nel 1970 viene processato, per aver tentato, insieme a un gruppo di ebrei russi dissidenti, di dirottare un aereo verso Israele e condannato alla pena di morte; pena che gli viene commutata, grazie alla pressione dell’opinione pubblica internazionale, in quindici anni di reclusione in un campo di lavoro a regime speciale in Mordovia. All’inizio degli anni Settanta i suoi diari [Parole trafugate sono i suoi diari del carcere], usciti clandestinamente dalla Russia, vengono pubblicati in Occidente. Nel 1979 viene rilasciato ed emigra in Israele.
Ma accanto i diari di Kuznekov consentono di scavare nella realtà reale che riguarda non solo Putin e i suoi amici, ma la mentalità con cui in maniera vittimaria è stata raccontata la risalita dal profondo della nuova Russia post-sovietica. In quel linguaggio sta un solido codice: complottista, vittimario, antisemita. Quel linguaggio, tuttavia non è nato con la nuova Russia. Aveva una cittadinanza consolidata anche nella Russia sovietica.
Il diario è di Eduard Samuilovič Kuznecov. Leggerlo è utile anche per questo. Che cosa sia il diario di Eduard Samuilovič Kuznecov, lo spiega con parole dirette ed efficaci Marcello Flores nelle pagine di introduzione.
“l diario di Kuznecov – scrive Flores – non è soltanto una testimonianza tra le più dirette e intense della vita nell’universo concentrazionario dell’Unione Sovietica di Brežnev, della logica del regime carcerario e della quotidiana esistenza dei detenuti; è anche uno spaccato della mentalità dell’epoca, della diffusione e sopravvivenza di un forte antisemitismo in tutti gli strati e gli ambiti della società russa” [p.15].
E tuttavia ci sono delle osservazioni che rendono ancora più diretto e ineludibile il senso profondo delle questioni che pone Kuznecov in queste sue pagine. Ne cito tre solo a scopo esemplare e che fissano la fisionomia del potere molto oltre la data in cui sono scritte, per descrivere sostanzialmente la realtà alla data di oggi.
Il primo è il rapporto con la visione punitiva nei confronti della mafia russa non per il ristabilimento del diritto, bensì per ribadire chi comanda e, perciò, e otre e fuori dal diritto.
Scrive Kuznecov in data 26 novembre 1970:
“Pare che sotto i fascisti la mafia avesse cessato di esistere. Del resto così dev’essere. Ogni regime dittatoriale al limite pone fine con discreto successo alla delinquenza organizzata. Che sia dittatura personale o oligarchia amministrativo-politica, esso considera sempre la delinquenza organizzata sua prerogativa e non tollera concorrenza. Si potrebbe addirittura affermare, alquanto paradossalmente, che la presenza di una delinquenza organizzata sia, «almeno per ora», indice infallibile di società democratica, se gli amatori di diatribe formaliste non fossero pronti a dichiarare che in tal caso più delinquenza c’è, maggiore è la democraticità” [p. 45].
La seconda nota riguarda la fisionomia del potere e dell’immagine dell’identità russa che il potere riconosce a se stesso e che si esplicita nell’ispirarsi a quello che considera il suo modello di perfezione. Scrive Kuznecov in data 14 dicembre 1970:
“Prendendo in esame la categoria dell’«animo nazionale» in un certo senso fuori del tempo, pensando in ogni modo che la serie delle sue essenziali caratteristiche è praticamente invariata, io ritengo che la struttura tipo della cultura politica del popolo russo può essere definita dispotica. Le variazioni di questo tipo di potere non sono poi tanto numerose, l’inquadratura storica ne è stata data da Ivan il Terribile e da Pietro il Grande. Io considero il potere sovietico erede legittimo di questi due governanti russi, ciascuno a suo modo ideale”. [p. 61]
La terza riguarda la natura del regime. Scrive Kuznecov ancora in data 14 dicembre 1970:
“Considero il regime esistente nel nostro Paese come una varietà di religione laica tirannica, la cui divinità è costituita dallo Stato. Per adesso non si può parlare della possibilità di una secolarizzazione della Russia. Si può solo parlare di una successione di culti pagani in un’atmosfera fondamentalmente religiosa. Ogni religione è caratterizzata da una particolare sete di sangue, appunto, all’alba della sua esistenza; in seguito invecchia e si contenta di arrostire gli eretici, prevalentemente solo in senso figurato”. [p. 68]
Il corsivo è mio. Solo per sottolineare come 50 anni fa, prima dell’ascesa del tempo dei fondamentalismi ritenevamo di essere lontani dalla scena di Campo dei Fiori e che i roghi fossero una testimonianza di un tempo dietro di noi.
Non è staro e non è così. Anche per questo, forse le pagine di Kuznecov sono amare. Non tanto perché ci raccontano come si può rimanere lucidi in tempi di terrore subito. Quanto, soprattutto, come ogni mattina, come il Sisifo di Camus, dobbiamo riconsiderare il fatto che giunti forse verso la cima il masso torni a cadere nel profondo e dunque si tratti di decidere se guardare sconfortanti il presente e arrendersi o scendere di nuovo nella caverna e affrontare il peso e la sfida di riprendere a provare di cambiare. Ovvero di “non mollare”. Mai.
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