Storia

Luglio 1945, l’eccidio di Schio

23 Novembre 2023

Schio, notte fra il 6 e il 7 luglio 1945. Un gruppo di ex partigiani appartenenti alle formazioni Garibaldi, penetrano nel carcere di via Baratto dove sono reclusi, alcuni in attesa di giudizio e per lo più per motivi politici, 99 detenuti fra uomini e donne.

Impossessatisi dello stabilimento penale, gli stessi procedono ad una sommaria selezione dei carcerati, ne escludono pochissimi e, dopo averli raggruppati assieme, utilizzando le armi  in dotazione fanno fuoco.

Quando l’ultimo mitra tace, si presenta agli esecutori uno spettacolo orrendo: 40 uomini e 14 donne giacciono a terra, in un lago di sangue.

Compiuto il massacro, il gruppo di fuoco si allontana rapidamente e fa perdere le proprie tracce. La notizia arriva abbastanza presto alle forze di sicurezza; carabinieri e polizia militare alleata, che raggiungono in tutta fretta il luogo del delitto.

Quando arrivano, la prima cosa che li colpisce è il sangue che dal piano superiore, dove è avvenuto l’eccidio, scorrendo per le scale era arrivato in strada.

Iniziano immediatamente le indagini per trovare i colpevoli ma le indagini si appalesano subito difficili. Salvo qualche scampato alla strage, perché protetto dai corpi delle vittime, quanti potevano dare qualche indicazione sugli autori e sulle dinamiche della vicenda tacciono.

Fra la gente prevale infatti l’omertà dettata, in qualche caso dalla solidarietà con gli assassini, in qualche altro caso dalla paura di ritorsioni.

Sono dunque i superstiti che indirizzano gli inquirenti sulle tracce degli autori. Qualche giorno dopo, il 12 luglio, viene infatti arrestato l’ex partigiano Renzo Franceschini seguito dal fermo di un’altra decina di suoi compagni e di membri del locale CLN.

Gli arresti non fanno, però, piacere ai dirigenti comunisti locali, peraltro in grande imbarazzo per quanto era accaduto visto che i fermati erano tutti militanti PCI.

Ma le autorità militari sono inflessibili tanto che già il 6 settembre a Vicenza si riunisce la Corte militare alleata per processare Franceschini e compagni.

Alla sbarra arrivano però solo in sette, gli altri arrestati erano riusciti a fuggire e, grazie alla complicità del partito, avevano raggiunto alcuni la Cecoslovacchia altri la più vicina Jugoslavia.

Il verdetto della corte è inesorabile, tre membri del commando vengono infatti, addirittura, condannati a morte, pena che successivamente sarà mitigata nel carcere a vita e, poi, fra sconti vari e benefici ridotta ad appena dieci anni.

L’eccidio si inquadrava nel clima esasperato del dopoguerra come risposta a ad altri eccidi, esecuzioni sommarie e torture di cui le truppe di occupazione tedesche e i loro sodali repubblichini si erano resi responsabili proprio in quelle zone.

Le proporzioni della strage di Schio furono, però, tali che non meraviglia le parole del generale John Dunlop, comandante delle autorità alleate in Veneto, il quale dichiarò. “E’ mio dovere di dire che mai prima d’ora il buon nome dell’Italia è caduto tanto in basso nella mia stima”.

Scrivono, a questo proposito, nella loro monumentale storia della Resistenza Marcello Flores e Mimmo Franzinelli che “una parte dei partigiani comunisti volesse in realtà proseguire la rivoluzione anche dopo la liberazione” tanto da concepire eccidi e vendette sommarie come quello realizzatosi a Schio.

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