Geopolitica
L’Ucraina e l’arancia di Einstein
Ovvero: La soluzione peggiore, eccezion fatta per tutte le altre, almeno finché esisteranno gli imperi.
Ogni giorno Franco -il bullo della scuola- picchiava Daniele alla macchinetta del caffè. I timidi si facevano da parte, i più servili scodinzolavano per l’aggressore. Chi conosceva Franco si teneva lontano, Franco era uno che sapeva menare, un ripetente. Mi ricordo quel giorno, il giorno delle mie spinte senza senso a Franco sulle scale, a testa bassa, istintive, incontenibili. Mi ricordo la sua meraviglia, i suoi occhi sgranati, per la sorpresa non mi picchiò neppure. Daniele era commosso. Erano tanti anni fa, ma l’istinto mi portava già allora più facilmente tra gli sconfitti vista la folla tra i vincitori. Non è un vanto, che volete, sono passati troppi anni per dei monumenti all’Ego, ne parlo (con ritrosia) solo perché a tanti anni di distanza forse la cosa che più mi irrita del dibattito di questi giorni -magari anche complice questo ricordo remoto- è l’accusa di codardia. L’idea che quelli come me siano bollati dai soliti pennivendoli con l’elmetto quali novelli “panciafichisti“ di dannunziana memoria, insomma dei vigliacchi che vogliono lasciare gli ucraini da soli, ecco, questo mi ripugna nel profondo, nell’anima. Che si spacci l’idea grottesca che la prepotenza imperiale di Putin abbia in gente come me la sua quinta colonna in occidente, ecco, è la cosa che mi dà più la nausea di questa retorica interventista.
Ma ora devo parlarvi del tema vero, che un’eccessiva parte biografica logora il discorso.
Quando si fondarono le Nazioni Unite i vincitori del conflitto decisero che solo cinque tra loro avrebbero potuto mettere un veto alle risoluzioni dell’ONU. Sembrò agli altri assurdo, paralizzante, antidemocratico, e indubbiamente tale era. 5 Stati su 51, che successivamente sarebbero diventati addirittura 5 su 193. Ma presto fu chiaro il motivo pragmatico che stava dietro questa scelta di realpolitik, il sotto testo di quello che si apprestava ad essere il maggior organismo internazionale, una strutturazione oligarchica che allora poteva apparire “temporanea”. Quei cinque paesi a stretto giro infatti avrebbero avuto tutti la disponibilità dell’arma atomica, erano Potenze. Stati Uniti (1945), URSS (1949), Regno Unito (1952), Francia (1960), Cina (1964).
E la situazione così cristallizzò, indefinitamente.
Il mondo era divenuto la loro arancia. Gli altri paesi, i “non allineati”, al massimo potevano armeggiare sui bordi, contendersi attenzioni benevole, giocare la difficile partita della neutralità dei “vasi di coccio tra i vasi di ferro”, ma i paesi interclusi negli spicchi no, gli Stati entro quei confini imperiali erano destinati ad essere vassalli della ferrea logica dei blocchi. La dottrina Monroe dilatata nella Nato, il cuscinetto sovietico strutturato nel Patto di Varsavia. Nessun cambio di regime sopravviveva alla guerra a bassa intensità che ogni blocco esercitava imperialisticamente entro la sua “sfera di influenza”. Pochissime le eccezioni, sostanzialmente tutte figlie di lotte di liberazione anti-coloniali o di crisi congiunturali interne ad una potenza, spesso dovute al moltiplicarsi dei suoi fronti aperti.
Per settant’anni queste potenze si sono fronteggiate, spartite, sfiorate e contese ogni frammento di terra del pianeta. Ma una vera guerra diretta tra loro non l’hanno mai fatta.
Quel diritto di veto è così divenuto di fatto la ratifica d’un veto atomico, d’una remora invalicabile. E’ stato lo stesso fuori scala suicidiario rappresentato dall’olocausto nucleare ad inanellare la catena che lega le mani ad ogni ipotizzabile escalation bellica tra le potenze, il solo fattore di deterrenza oggettivo che ha reso la parte restante di quegli arsenali bellici utile solo nelle faccende interne o in paesi terzi.
Questo è l’ordine mondiale che regge il pianeta da tre quarti di secolo. Attraversato certo dai recenti 20 anni di profonda crisi del blocco imperialista russo. Per superare un bel giorno (nel nostro futuro) questo mondo lottizzato e umiliato, dobbiamo continuare ad averlo sempre presente, ad ogni passo. Capirne le dinamiche, le ragioni, confrontarci con la presenza ingombrante di questo bottone d’autodistruzione che fece dire ad Einstein che la quarta guerra mondiale, un giorno, sarebbe stata combattuta solo con pietre e bastoni. Un dramma che sposta ogni giorno le terribili lancette del Doomsday Clock. Negli anni ottanta questo dato di fatto era chiaro ad ogni latitudine, successivamente invece la crisi del blocco russo restituì la falsa sensazione d’un mondo indefinitamente unipolare, un mondo senza storia per dirlo alla Fukuyama.
L’arma totale è il limite razionale posto al dibattito. E la cultura occidentale, si sa, pare molto attrezzata al razionale ma assai meno al concetto di limite. Che siano limiti al suo sviluppo, alle sue emissioni, allo sfruttamento degli ultimi o ai consumi, il modello egemone non accetta alcuna ipotesi di finitezza, perché il capitalismo stesso si fonda sul mito dell’inesauribilità dei fattori. Ed il modello occidentale è divenuto, lo sappiamo, il modello universale. In fondo è questo il tema di questa fase, capire dove si trovi la linea di demarcazione dell’ipotizzabile che per converso ha mostrato proprio in questi giorni i primi segni dell’insorgere di sinistre tentazioni che attraversano le cancellerie occidentali, di valicarlo invece questo confine invalicabile. Di flirtare con l’apocalisse. Perfino un falco come Kennan aveva avvisato che l’indifferenza per gli equilibri consolidati avrebbe portato ad una instabilità senza sbocchi. L’arma totale pone un argine algoritmico alla risposta razionale, rende non ipotizzabile l’idea stessa di un conflitto diretto tra le potenze nucleari e, in sostanza, stabilisce e legittima così, indirettamente, il regno del loro dominio e barbarie, sorregge de facto la sopraffazione internazionale che le potenze non smettono mai di affermare. Parafrasando Churchill e il suo celebre aforisma sulla democrazia “E’ il compromesso peggiore, eccezion fatta per tutti gli altri immaginabili, almeno finché esisteranno questi imperi”. Un precario equilibrio tra “i bulli” vige quale dominus assoluto nell’era della disponibilità nucleare e ha reso incerte le stesse sorti del nostro pianeta, ogni bullo può demolire l’intero palazzo in cui tutti viviamo.
Da questo dato di realtà bisogna partire. Dal dato di fatto -disarmante e radicale- che il mondo sia un’arancia nelle mani di potenze nucleari. Che le nostre democrazie oligarchiche mantengono l’ordine in Medio Oriente con gli stessi terribili strumenti con cui le democrature lo mantengono in Ucraina, Kurdistan o in Georgia. Le vittime innocenti di questo lottizzare d’imperi non guardano certo ai sistemi di voto delle bombe che gli piovono addosso. L’America può fare sostanzialmente ciò che vuole nella sua sfera d’influenza (e lo ha fatto per settant’anni), e può continuare farlo nella massima impunità, e così pure può fare la Russia, con buona pace dei nostri buoni sentimenti.
Se non accettiamo questo limite, oggettivamente posto al possibile dispiegarsi concreto del diritto internazionale, ed imposto dagli stessi strumenti di sterminio di massa (l’aggredito ha ovviamente l’inalienabile diritto di non accettarlo e resistere), dobbiamo allora porci -sia come blocco imperiale ma sopratutto come singoli individui, come specie- la domanda niente affatto retorica se siamo disposti per un riassetto violento delle sfere d’influenza a mettere sul piatto della bilancia la possibile fine della stessa vita sul pianeta.
Se riconosciamo invece questo come un limite oggettivo ed invalicabile, posto dalla realtà, non dalla volontà, alla risoluzione dei conflitti tra le potenze, possiamo solo negoziare. E’ la razionalità che ce lo impone. E anzi: siamo in dovere di indurre le nostre cancellerie a negoziare prima e il più instancabilmente possibile, prima che il conto delle vittime aumenti, prima che l’instabilità possa degenerare in delirio, prima che un incidente alla frontiera polacca ci trascini tutti nel suo abisso. In Yemen e in Ucraina, bianchi gialli o neri, biondi o ricci, democratico-occidentali o sottoposti a tirannie siamo tutti figli della stessa razza, quella umana. E l’uomo non è l’unico “abitante” del pianeta.
La nostra lotta contro l’oligarchia, instancabile, perenne, è tutta dentro quei blocchi, mai tra loro.
“L’umanità avrà la sorte che saprà meritarsi.”
Nasceva il 14 marzo di 143 anni fa a Ulma, Germania, Albert Einstein.
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