Storia

L’Ottocento, secolo del colera

20 Agosto 2021

“L’eccezionalità di una epidemia e la conseguente mobilitazione modificano gli equilibri tradizionali” un’affermazione, quest’ultima, più che fondata, come dimostrano le riflessioni che troviamo a questo proposito nell’interessante volume “L’ottocento. Il secolo del colera” dello storico delle istituzioni Giuseppe Astuto, con saggi di Elena Gaetana Faraci.

Ed in effetti il ripetersi di epidemie di colera, il cosiddetto “morbo asiatico”, che hanno flagellato l‘Italia nel corso del XIX secolo hanno inciso in maniera determinante sul destino della penisola contribuendo, ad esempio, indirettamente alla caduta del regno borbonico – nonostante la loro lungimiranza testimoniata dalle “riforme che misero ordine al settore dell’assistenza ospedaliera fino ad allora gestita dalle congregazioni religiose” – o all’emergere, negli anni ’84 e ’85, di “una nuova cultura giuridica e politica in materia di interventi speciali per il risanamento e per la pianificazione urbana”.

Il volume, molto documentato, si sofferma soprattutto su quanto accadde nel Regno meridionale ed in Sicilia, con un occhio particolare alla città di Siracusa dove si verificarono episodi di vera e propria jacquerie culminati in orrendi delitti come la lapidazione dei coniugi Schwentzer, ingiustamente accusati di essere untori.

L’idea che il morbo fosse il frutto di un veneficio ordito dai governanti era infatti molto diffusa e questo scatenava caccie all’untore che provocarono molte vittime innocenti e la conseguente dura repressione di quelle forze che furono incaricate di ristabilire l’ordine.

Il saggio ci ricorda che sull’ignoranza popolare fece spesso aggio il non sempre responsabile comportamento delle opposizioni liberali al regime borbonico che la strumentalizzarono per far crescere il forte disagio sociale dovuto a talune poco opportune scelte dei governanti borbonici.

Eppure, nonostante le incertezze e le contraddizioni, ma anche la non chiara consapevolezza delle natura e delle origini dell’epidemia, le risposte all’emergenza messe in atto da Ferdinando e dal suo governo, con l’istituzione di organismi amministrativi per la sanità e con la predisposizione di cordoni sanitari e di quarantene per bloccare la diffusione del virus, furono tuttavia sufficientemente adeguate al livello di conoscenza sanitaria del tempo.

E proprio quell’organizzazione amministrativa costituì un tassello di quell’ordinamento, poco conosciuto ma ben indagato dai due docenti, che si collocava “a metà strada fra l’esperienza della monarchia assoluta e la monarchia costituzionale”.

Con l’avvento del Regno d’Italia le cose non cambiarono più di tanto; la mancanza di conoscenze scientifiche adeguate e l’ignoranza delle masse continuarono infatti ad alimentare l’errore che il morbo fosse “il risultato di un consapevole veneficio, spesso prodotto dal governo”.

L’epidemia del 1866 e l’interpretazione che ne venne data, anche in questo caso come complotto governativo, fu infatti alla base della rivolta palermitana del “Sette e mezzo”.

E, tuttavia, qualcosa stava già cambiando, seppur lentamente, visto che l’attenzione dei governanti viene sempre più posta sull’igiene pubblica e privata. Si promuovono infatti molti interventi per rendere salubri gli agglomerati urbani e per purificare le acque potabili e realizzare reti fognarie.

La successiva epidemia, quella del 1884/85, che coincise con la scoperta del batterio causa del colera, pur insistendo sulle tradizionali misure adottate, cioè i cordoni sanitari e le quarantene, diede una spinta ulteriore verso il rafforzamento dell’igiene pubblica che ora veniva considerata precondizione per vincere il morbo.

La legge speciale per Napoli, voluta da Depretis, che prevedeva la bonifica di interi quartieri, portava ad una svolta assumendo il principio che “lo Stato può farsi carico dei problemi di una città o di un’area geografica” e che “di fronte a gravi ed eccezionali condizioni si possono travalicare i limiti dell’ordinaria amministrazione”.

Ma il salto di qualità avviene con l’arrivo di Francesco Crispi ai vertici dello Stato. Nel 1887 il morbo si era riaffacciato e, il neo presidente del consiglio decide di fare della questione sanitaria uno dei temi principali su cui impegnare l’azione riformatrice che avrebbe qualificato la sua esperienza di governo.

Collaborato da Luigi Pagliani, un tecnico d‘eccezione, messo da Crispi a capo dell’Ufficio speciale di polizia sanitaria, viene elaborato un progetto di riforma organica che supera i vincoli dettati dall’episodicità degli interventi. La materia sanitaria viene organizzata in modo piramidale creando figure nuove, come l’ufficiale sanitario comunale, e individuando una direzione generale di sanità affiancata da un organo consultivo come il Consiglio Superiore di sanità.

Ma Pagliani-Crispi, non si fermarono qui, si rendevano infatti conto che fosse necessario preparare i medici sulla materia dell’igiene pubblica, da questo viene fuori la istituzione della Scuola di perfezionamento in igiene pubblica.

Realizzato l’ordito amministrativo come macchina efficiente per affrontare le emergenze sanitarie e, quindi, le pandemie, Crispi affrontò anche un tema con esso strettamente connesso, cioè il risanamento urbano, non è infatti un caso che, nel discorso alla Camera, egli potesse affermare che ”la maggior parte e più importante polizia sanitaria è l’edilizia”.

Un disegno di vasto respiro che è la risposta matura di un grande statista che, in quanto tale, era dotato di sguardo lungo.

Cacciate via le superstizioni popolari, costruita una struttura adeguata, ora il Regno poteva affrontare con maggiore serenità ed efficienza eventi eccezionali come lo sono, appunto, le pandemie.

 

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