Storia
Lo stato di salute di Utopia
Lo stato di salute dell’utopia è precario.
Deve essere anche per questo che se ne è parlato poco in questo 2016.
Eppure, anche a voler stare schiacciati il calendario della commemorazioni, l’opportunità c’era: 500 anni dalla prima edizione dell’Utopia di Thomas More non avrebbe meritato il silenzio.
In questo 2016 ci siamo ricordati di molte cose: dei 30 di Chernobyl mentre poco dei 40 anni di Seveso, anche i 40 anni del terremoto in Friuli (in ogni caso qualcuno ha speso delle parole). Il centenario della prima guerra mondiale è stato “tenuto caldo” dal centenario della Battaglia della Somme. Su tutti l’ha fatta da mattatore il cinquecentenario dell’istituzione del ghetto di Venezia.
Ma anche un altro cinquecentenario ricorreva quest’anno: quello della prima edizione de L’utopia di Thomas More. Ma quest’anniversario, è caduto pressoché in silenzio, comunque non ha “emozionato”.
E del resto, è anche vero che quando se ne è parlato è stato per decretarne lo stato di morte comunque di scarsa salute. E’ accaduto nei giorni scorsi.
Una prima volta ne hanno parlato Marco e Rizzi e Luciano Pellicani su “La Lettura”del 4 settembre, contrapponendosi tra una valutazione dell’Utopia come una riflessione intorno ai limiti della violenza soprattutto nel codice culturale delle fedi (Marco Rizzi, l’unico a valutare positivamente il testo di Thomas More ), oppure come prefigurazione dei totalitarismi dl Novecento (così Luciano Pellicani) ricordando, similmente a ciò che accadrà nel sistema GULag come Moro lo descrive nelle prime pagine del Suo testo:
“Quanto a progettare la fuga – scrive More in Utopia – ciò non è meno pericoloso della fuga stessa: per chi ne venisse sorpreso sarebbe la morte se servo , la servitù se libero ; come, per converso, si premia chi denuncia: con denaro chi è libero, con la libertà chi è schiavo”.
Una seconda volta con Paolo Prodi e Massimo Cacciari per i quali da una parte (Paolo Prodi) la profezia trasmissione della voce di Dio che si contrappone alla realtà del potere, viene meno con l’avvento della modernità, trasformandosi per un verso in utopia e progetto rivoluzionario e per l’altro in visione intima del mistico, contatto personale con Dio. Dall’altra (Massimo Cacciari) per cui se l’utopia fin dall’inizio al processo di secolarizzazione delle idee teologiche, essa poi si estingue lentamente con il processo di decomposizione dell’idea di redenzione. Un processo che si consuma nella prima metà del Novecento e le cui ultime avvisaglie si perdono alle soglie del Sessantotto. Poi è fine del sogno.
Dunque l’utopia non sembra godere di grande salute.
La questione tuttavia non è così semplice o, almeno non mi sembra rinchiudibile dentro alle categorie anche inquiete proposte da Cacciari o da Prodi.
La crisi di utopia non è solo fine della profezia o fine della sua possibile e auspicata congiunzione con la scienza.
Utopia è la rivendicazione di un diverso processo nella storia, di liberarsi dalla costruzione del presente e avere tempo e spazio per sé.
In questo senso Utopia a lungo ha avuto il significato di liberarsi dal lavoro.
In che forma è ancora il nostro presente e, soprattutto la realtà della rivoluzione 4.0 parla questo linguaggio?
Lo scenario che oggi ci troviamo a fronteggiare è quello di uno sviluppo economico sganciato dalla creazione di posti di lavoro.
In breve
- si moltiplicano le forme del lavoro e l’esperienza dei lavoratori si configura sempre più come eterogenea, fluida, instabile;
- l’innovazione tecnologica e i processi di automazione erodono progressivamente posti di lavoro;
- la produttività del lavoro aumenta mentre l’occupazione diminuisce; i bisogni diventano più articolati e complessi mentre i salari scendono;
- sfumano sempre più i confini tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, lavoro e tempo libero, luogo di lavoro e spazio privato.
La riflessione cui siamo chiamati non è dunque solo economica: chiama in causa le dinamiche d’inclusione nel mondo del lavoro e le caratteristiche dei percorsi di formazione, il rapporto tra l’uomo e la macchina, le domande di tutela e i percorsi di rappresentanza.
E’ possibile pensare il futuro oltre la disoccupazione tecnologica? Oltre cioè quella dimensione attraverso la quale a lungo era stata pensata utopia, che vedeva nel tempo del non lavoro una liberazione, e che ora, invece percepisce come marginalizzazione?
A me sembra una buona domanda.
Per scioglierla, forse può essere utile battere strade diverse da quelle della ricerca spasmodica di una risposta. Forse preliminarmente è bene andare in cerca di buone domande.
Anche per questo più che i molti spunti teorici magari anche attraenti. Il tema e il profilo sono ancora quelli indicati da Bauman nel suo Modus vivendi .
In particolare nell’ultimo capitolo del libro dal titolo “L’utopia nell’età dell’incertezza”. “Inferno e Utopia”: l’esatta percezione di un mondo divenuto quello che è. Inferno è dunque la fine dell’Utopia? Di certo è la sua potente ed irreversibile crisi sostiene Bauman.
L’Utopia di Tommaso Moro era il sogno di un mondo perfetto, sicuro, purificato dalle incertezze. Gli uomini hanno sempre dato la caccia alle loro Utopie, non le hanno mai realizzate. Il sogno collettivo è stato ormai del tutto rimpiazzato dal sogno individuale. La modernità pretende l’uso delle cose e il loro successivo abbandono, consumiamo per sopravvivere e per far sopravvivere. Il gioco più popolare del momento si chiama fuga, spiega Bauman, visto che non c’è possibilità di migliorare il mondo e l’incertezza c’è e resterà, l’unico obiettivo rimane uno: cercare di non perdere. “Il sogno di rendere l’incertezza meno terribile e la felicità più permanente cambiando il proprio ego, e il sogno di cambiare il proprio ego cambiandogli i vestiti, è l’utopia dei cacciatori”. Si fugge dall’incertezza e dagli interrogativi esistenziali inventandosi una caccia, ma la lepre da cacciare non ha alcuna rilevanza. La vera spinta è la caccia in sé. Dichiarare la fine alle azioni di caccia significherebbe ammettere la sconfitta dell’Utopia e il precipitare nell’Inferno.
L’utopia o almeno il bisogno di utopia è una necessità, così come la fuga non sempre è il segno della sconfitta ma è un modo per non rimanere prigionieri del proprio presente e provare a reinventare una nuova idea di futuro, un’ipotesi su cui ha richiamato l’attenzione Pierre Zaoui e in forma diversa Yerushalmi.
In entrambi i casi l’invito è vedere nella sconfitta e nella “fuga” che segue a quella sconfitta non un ripiegamento ma un’opportunità, un nuovo inizio, per certi aspetti una sfida.
E’ il tema e il profilo su cui a lungo ha lavorato Bronislaw Baczko, significativamente deceduto pressoché in silenzio il 29 agosto scorso a Ginevra.
Di Baczko, un intellettuale europeo di grande spessore come ha scritto Sergio Luzzatto molti si sono dimenticati, e forse l’ultima occasione era proprio in questo 2016, legando la sua ricerca tornando a fare di nuovi i conti, laicamente – con l’utopia.
Ma quest’anniversario, è caduto pressoché in silenzio, comunque non ha “emozionato” Così nessuno è andato a cercare Bronislaw Baczko, l’ultimo grande intellettuale che si sia occupato di utopia, fosse anche solo per riprendere in mano pagine di del suo Utopia (Einaudi, 1979) un libro “scomparso” da tempo , alternativamente anche da quelle più recenti del suo con Dictionnaire critique de l’utopie au temps des Lumières .
Baczko aveva cominciato molti anni fa, quando ancora l’utopia esercitava un fascino e nell’opinione corrente quella parola esprimeva ancora non solo un vissuto interiore ma aveva la dimensione del sogno.
Il tempo ha lentamente eroso i margini e lo spazio della riflessione, intorno all’utopia. Parola un tempo ricca di suggestioni, oggi evoca solo incubi, o delusioni, o ripiegamento, comunque forse “sconfitta”, “illusione”, oltreché “delusione”.
La eclisse di “utopia” si trascina dietro molte altre parole: “progetto”, forse “alternativa” o più modestamente “proposta”. Anni fa, proprio di fronte a questa condizione incerta Baczko si era chiesto quale sarebbe stato il futuro dell’utopia e si era arrestato sulla soglia: da una parte il disincanto, dall’altra la necessità di darsi un’domani, per cui di fronte all’incertezza del futuro.
E’ la dittatura del presente, ha ricordato in tempi recenti Salvatore Veca che occorre contrastare e dunque dare nuova cittadinanza a utopia. Proprio come possibilità, come altra versione.
In un’epoca in cui il senso comune sembra essere il realismo, la infinita ripetizione del presente, ridare spazio alla parola “Utopia” e nella scala apparentemente più bassa, alla parola “possibilità” o nella versione soft alla parola “alternativa”, significa affermare che “cambiare si può”, e che una delle chiavi per pensare domani è sapere che il presente non è il futuro. E una delle possibilità per dare forma al futuro è avere la voglia di scavare, di ritrovare parole, desuete o cadute, e dare ad esse “nuova vita” e con esse costruire emozioni, sensazioni, significati da ripensare, “rimasticando”.
Utopia, non è mai stata solo sogno, è stata anche percezione di una condizione che al presente modifica ciò che ereditiamo dal passato, ci obbliga a osservare con attenzione le condizioni in cui ci muoviamo nel presente e dunque ci fornisce alcuni indicatori per tentare di dare risposte a questioni che costituiscono il quaderno di cose che vorremmo per noi, domani.
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