Geopolitica
“L’informazione negata”: quando la neutralità distrugge l’umanità
Neutralità. È la parola chiave di questo libro, la parola che ha informato tutte le scelte e gli indirizzi delle autorità svizzere durante il Secondo conflitto mondiale e nel periodo che lo ha immediatamente preceduto. Una neutralità che, se ha consentito alla Svizzera di non essere direttamente coinvolta, ha anche comportato pesanti responsabilità morali. Perché una domanda sorge spontanea: si può essere neutrali di fronte all’iniquità e all’orrore, o si diventa in qualche modo complici?
È il quesito inquietante che sgorga dalla lettura di questo libro, frutto di una ricerca accuratissima, durata anni, con la consultazione di migliaia di documenti. Un libro dalla stesura chiara, esauriente in ogni aspetto, che consente al lettore di farsi un quadro completo e circostanziato della situazione.
Silvana Calvo è partita da una ricorrente vulgata, quella che dice che della Shoà durante la guerra la gente non sapeva nulla, o quasi nulla… tutto si è scoperto dopo. E allora ha voluto vedere a fondo che cosa veramente le fonti di informazione svizzere dicessero e scrivessero in quegli anni, e, soprattutto, che cosa nelle ‘alte sfere’ si sapesse, in rapporto a quanto arrivava ai cittadini comuni.
L’autrice propone una accurata rassegna di tutti i mezzi di informazione allora disponibili: bollettiniradiofonici, cinegiornali, organi di stampa nazionali, locali, e confessionali. Tutti erano sottoposti a ‘censura di guerra’ che imponeva assoluta equidistanza tra le parti in conflitto e divieto di formulare critiche e commenti sfavorevoli, soprattutto nei confronti della Germania e dell’Italia.
È evidente come verso le potenze dell’Asse ci fosse in realtà un riguardo particolare: da un lato le pressioni tedesche e le più o meno velate minacce erano un elemento oggettivamente preoccupante, dall’altro non mancavano in Svizzera aperte simpatie per il Nazismo e il Fascismo e, quantomeno nei primi anni di guerra, la convinzione che proprio queste forze avrebbero prevalso. Era quindi opportuno, in vista del futuro assetto dell’Europa, guadagnarsi rispetto e favore.
I mezzi di comunicazione erano quindi soggetti a commissioni di controllo, che, in caso di infrazione alle regole imposte, prevedevano richiami, ammende, ed anche la sospensione delle pubblicazioni.
Alla fine i giornali si ridussero, per quanto riguardava le notizie sul conflitto, a riportare parola per parola (e citando la fonte) i testi inviati dall’Agenzia Telegrafica Svizzera che li riceveva dall’estero, e che ne diffondeva direttamente una selezione nei quattro bollettini radiofonici in tre lingue. Anche in questo occorrevano speciali cautele: non dare più notizie che provenissero da parte alleata, rispetto a quelle di parte tedesca, non usare (nel caso della carta stampata) caratteri che dessero più rilievo alle une piuttosto che alle altre, eliminare comunicazioni che contenessero parole pregiudizievoli soprattutto per Germania e Italia.
A questo proposito, nel libro si ricorda una controversia sorta per la pubblicazione di un dispaccio alleato che parlava di ‘navi italiane in fuga’ in occasione di uno scontro nel Mediterraneo, espressione ritenuta lesiva nei riguardi dell’onorabilità italiana.
In questo quadro si inserì, in modo per molti versi anomalo, anche l’azione informativa di Esercito e Focolare. Si trattava di una iniziativa dell’Esercito finalizzata, in un primo momento, a rafforzare la motivazione dei 400.000 mobilitati attraverso iniziative di vario genere che promuovessero una immagine positiva del paese, per il quale valesse la pena di sacrificarsi , difendendo i valori su cui poggiava storicamente la Confederazione. Si temeva infatti, nei primi anni di guerra, che la Svizzera potesse subire un tentativo di invasione, per fronteggiare il quale erano stati predisposti piani di difesa.
Constatando, tuttavia, che tra la popolazione si stava diffondendo un atteggiamento disfattista, l’opinione, cioè, che essendo la Germania incontenibile, tanto valeva adeguarsi alla prospettiva di una Europa hitleriana e cedere, prima di esservi costretti con la forza, Esercito e Focolare pensò di estendere al sua azione anche al contesto civile. Senza un convinto sostegno della popolazione, l’esercito, infatti, sarebbe stato irrimediabilmente indebolito.
Negli ultimi mesi del 1941 ebbero così inizio i Corsi di Orientamento della Popolazione, cui avrebbero partecipato cittadini scelti, di provata fiducia, su indicazione delle autorità locali. La loro partecipazione assumeva il carattere di prestazione militare. Questi cittadini, a loro volta, avrebbero diffuso le idee attraverso contatti personali.
Ai conferenzieri, opportunamente formati, che tenevano i corsi, erano inviate regolarmente delle indicazioni dei temi da trattare, sotto forma di Linee Direttive. Nonostante la resistenza che il progetto trovò inizialmente presso le Autorità Federali, esso ebbe tuttavia modo di affermarsi e realizzarsi per tutta la durata della guerra, anche se non mancarono contrasti su alcune delle Linee Direttive.
Proprio per i suoi scopi, questo tipo di informazione andava in evidente controtendenza rispetto alla visione ‘sterilizzata ‘ dei media tradizionali. Si concentrava l’attenzione in particolare sulla Germania, dalla cui martellante propaganda anche in territorio svizzero era necessario difendersi: gli argomenti diffusi da stampa e cinema tedeschi e le dicerie messe in circolazione da Berlino andavano puntualmente rintuzzati e contraddetti, rivelando quale fosse la realtà delle cose.
Trattandosi di informazione sotto la giurisdizione dell’Esercito, che aveva perciò carattere privato, in questi interventi era possibile sottrarsi largamente ai rigori della censura. Si venne così definendo una situazione duale. Da un lato la rigidissima neutralità ufficiale portata avanti dal Governo, dall’altro l’orientamento e l’informazione ‘sotterranea’ gestita dall’esercito.
Tornando ai media tradizionali, se in merito agli andamenti delle operazioni militari bisognava essere cautissimi, rispetto alle specifiche informazioni sulla persecuzione degli ebrei, scendeva addirittura un silenzio pesante, soprattutto nei bollettini radiofonici, che rappresentavano la fondamentale fonte di informazione quotidiana che raggiungeva praticamente tutti gli Svizzeri. È significativo come dalla consultazione delle 30.000 cartelle che costituiscono la raccolta completa dei comunicati radio dal 1939 al 1944, emergano solo una trentina di notizie riguardanti il tema, spesso ridotte a poche parole.
Come sottolinea l’autrice, in ossequio alla più rigorosa neutralità era vitale che le parti in guerra venissero presentate come moralmente equivalenti e ugualmente degne di rispetto». Per questo, per evitare cioè che le notizie delle uccisioni in massa degli ebrei mettessero a rischio tale precario equilibrio, non trovò spazio nei notiziari neppure il Comunicato Congiunto Interalleato del dicembre 1942 che parlava apertamente della politica di sterminio messa in atto dai Nazisti in ossequio ai propositi più volte enunciati da Hitler, e descriveva una Polonia trasformata in ‘mattatoio’.
Le informazioni, anche circostanziate, di cui disponevano le Autorità Federali, provenienti da fonti alleate e da associazioni ebraiche presenti in territorio svizzero, non dovevano arrivare ai cittadini, anche per paura che potessero essere fonte di disordini sociali, di aspre contrapposizioni tra chi era sinceramente antifascista e chi coltivava, oltre che simpatie per l’Asse, anche un vigoroso antisemitismo.
La pace sociale era bene primario, e doveva essere salvaguardata ad ogni costo, evitando ogni informazione che potesse essere divisiva. Inoltre, tenendo la popolazione all’oscuro di quanto stesse avvenendo agli ebrei, era anche possibile giustificare la politica di limitazione degli ingressi e di respingimento nei confronti dei profughi che premevano a tutte le frontiere della Confederazione, e bollare come esagerazioni non confermate le voci di persecuzioni e massacri che comunque giravano.
Una pagina non proprio nobile fu anche scritta, in quegli anni, dalla Croce Rossa il cui Comitato Internazionale aveva da sempre sede a Ginevra ed era composto da cittadini svizzeri. Come ricorda Silvana Calvo, «poiché la Croce Rossa, rappresentava agli occhi del mondo l’istanza suprema in grado di difendere le vittime, tutti colori che sapevano qualcosa del dramma che si stava consumando sotto il Nazismo, trovavano naturale informare il CICR». La Croce Rossa, dunque, ben sapeva che cosa stesse accadendo.
Ma anche qui prevalsero le prudenze e la determinazione a rifuggire da qualsivoglia implicazione nel problema del genocidio degli ebrei. Forti delle convenzioni internazionali, che prevedevano da parte della CR la tutela dei soli prigionieri militari e civili detenuti in paese nemico, i prigionieri interni, per motivi razziali e politici, erano considerati un problema esclusivo dei singoli stati.
Nulla perciò, neppure i tragici rapporti di membri della stessa CR, o delle rappresentanze nazionali, smosse il Comitato dalle proprie posizioni di estremo riserbo e di rifiuto di ogni qualsivoglia intervento, che non fosse l’invio di pacchi-viveri.
Addirittura, quando nel ’42 il palpabile disagio di vari membri del Comitato fece nascere l’idea di un appello per il rispetto dei diritti umani da sottoporre ai belligeranti, benché questo fosse redatto in termini estremamente blandi e generici, ad esso non fu dato corso, anche per le pressioni del Governo Federale. L’implicita allusione alla situazione degli ebrei avrebbe potuto infatti irritare la Germania, e risultare perciò in contrasto con gli indirizzi di neutralità adottati dalla Svizzera.
Allorché, più avanti, alcune missioni mediche della CR svizzera, inviate sul fronte russo e di fatto controllate dai tedeschi, si apprestavano a rientrare, dopo aver assistito a inenarrabili atrocità, i sanitari dovettero impegnarsi a serbare silenzio assoluto sulla loro esperienza. Venivano al contempo diramate disposizioni preventive di censura a tutti gli organi di informazione, affinché nulla potesse in alcun modo trapelare.
A differenza dei bollettini radiofonici, alcuni giornali riuscirono però a diffondere alcune informazioni aggiornate sulla persecuzione degli ebrei, sfidando la censura e accettando il rischio di essere colpiti da sanzioni. Molto dipendeva, naturalmente, dall’orientamento delle testate. In questo si distinsero fogli liberali e socialisti, come il ticinese «Libera stampa», o periodici confessionali, espressioni della Comunità ebraica e delle Chiese cristiane. La loro diffusione era però limitata, e raggiungeva un pubblico naturalmente selezionato. Sapeva, insomma, solo chi voleva sapere.
Nell’archivio di Benjamin Sagalowitz, direttore dal 1938 e per tutta la durata della guerra della agenzia di stampa ebraica JUNA, sono conservati 800 ritagli di giornale, che rappresentano tutto ciò che in Svizzera fu pubblicato nei riguardi della Shoà.
Accanto ad articoli che presentano le misure adottate dai tedeschi e la sorte delle loro vittime, non mancano però anche scritti che danno sfogo a un violento antisemitismo, che individua nelle attitudini e nei comportamenti degli ebrei la motivazione della ostilità nei loro confronti, li addita come elemento causale della guerra in corso, fiancheggiatori del bolscevismo, nemici attivi della Chiesa.
Curiosamente, come nota l’autrice, questi articoli si fecero particolarmente virulenti proprio quando, allentatasi la censura nel corso del ’44 (fu abolita nel 1945), sorse da più parti un’ondata di solidarietà nei confronti degli ebrei. Proprio questo, evidentemente, si voleva contrastare, anche per opporsi a una più aperta politica di accoglienza.
Il venir meno del potere della censura quando ormai la disfatta della Germania si delineava, consentì a molti giornali di esprimersi finalmente in modo aperto sulla tragedia della Shoà, e di formulare pensieri critici non solo sul popolo tedesco, che aveva consentito e favorito un simile obbrobrio, ma anche sul colpevole silenzio del mondo.
Scriveva Das Volk nel luglio del 1944: «Ora che si sollevano i veli che una troppo paurosa censura non può più imporre, il mondo scoprirà cosa sono capaci di fare uomini non più legati al diritto. Capirà che i fatti di oggi non sono l’inizio, ma la logica fine di uno sviluppo di fronte al quale ha taciuto fino a quando è stato troppo tardi…… L’élite spirituale d’Europa, salvo qualche lodevole eccezione, ha preferito agire timidamente quando invece era necessario alzare decisamente e prepotentemente la voce».
Nel maggio del 1945 il National Zeitung punta direttamente la sua attenzione sulle responsabilità della Svizzera. « In quanti hanno percorso il nostro paese spiegandoci quanto bene stava facendo il Nazionalsocialismo, mentre l’informazione sulla sua vera natura e sulle sofferenze da esso provocate era contrastata e definita propaganda e istigazione»?
I giornalisti trovarono allora anche modo di esprimere il proprio personale disagio per essere stati costretti al silenzio e la propria vergogna per averlo consentito.
«Sin dall’inizio della guerra, è sempre stato insopportabile il fatto che si sapesse, da buone e fidate fonti, che l’orrore che si celava dietro l’espressione ‘soluzione finale del problema ebraico in Europa’ significava lo sterminio sistematico di milioni di ebrei,…..ma questi rapporti sono stati proibiti dalla censura mediante un termine inventato per l’occasione, ‘favolette dell’orrore’, e la loro diffusione è stata severamente punita…… Siamo sembrati tutti consenzienti, persino una istituzione come la Croce Rossa Internazionale, che non voleva mettere in pericolo le sue relazioni con certi governi responsabili. Se con ciò è stato davvero evitato un male maggiore, non si sa. L’ottusa inerzia verso questi avvenimenti è sembrata una agonia morale» (Thurgauer Arbeiter Zeitung, 8 luglio 1944).
E aggiunge il Landschaftler in quegli stessi giorni: «Chi tace, pur possedendo una voce in grado di farsi ascoltare, mette in pericolo il futuro della convivenza umana e il futuro della civiltà. Ci troviamo al limite estremo della neutralità»
Silvana Calvo – L’INFORMAZIONE RIFIUTATA
La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del genocidio degli ebrei
Zamorani, 2017
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