Storia
L’individualismo libertario e la società capitalistica
Non si finisce mai di piluccare quell’immenso scrigno di osservazioni puntute e intelligenti che è il libro di Eric J. Hobsbawm “Il secolo breve” (Rizzoli, 1994). Sono oltre settecento pagine di delizia pura da non leggere consecutivamente, ma da “sorprendere” nel loro flusso, aprendo il libro a caso, una volta che, beninteso, se ne conosca la struttura e il disegno redazionale dell’autore (che è tematico e che ha un respiro enciclopedico abbracciando in una sorta di “storia totale” tutti i fenomeni politici, economici, bellici, estetici e culturali ecc. del secolo XX). Ho ripreso il libro in mano perché in occasione del concerto di Vasco Rossi avevo scritto su Facebook una notarella polemica.
Ma davvero si crede ancora che il rock sia eversivo e non una delle forme più raffinate di consumismo, sapendo esso coniugare con il consenso esplicito del sistema la capra formale del ribellismo indomito e i cavoli del più filisteo consumo di nicchia nel frattempo diventata massa come si è visto a Modena? S’è mai vista una rivoluzione con il permesso dei superiori e dei carabinieri?
Ora, stimolato dalle riflessioni che avevo condotto estemporaneamente sul “recitato” e innocuo ribellismo rock di Vasco Rossi sono andato a riaprire il capitolo che il libro di Hobsbawm dedica alla “Rivoluzione culturale” degli anni ’50-70 e che stava in sottofondo al mio post.
Grande rilievo vi trova ovviamente in questo capitolo la rivoluzione giovanile e giovanilista. Hobsbawm dice che la gioventù di questi anni è un “gruppo autoconsapevole”, i giovani sanno cioè di essere giovani (ricordate la canzone “Noi siamo i giovani, i giovani, i giovani… l’esercito del surf!”). A noi può sembrare scontata questa osservazione, ma se si apre un altro libro, quello di John Gillis, “I giovani e la storia” (Mondadori, 1981), in mio possesso, e che vedo citato da Hobsbawm, si scoprirà che “i giovani devono fare i giovani” è un imperativo relativamente recente. Ma anche gli stessi giovani sono una invenzione relativamente recente. Nelle precedenti epoche storiche i “giovani” NON esistevano come categoria bio-socio-culturale o se ne riconosceva appena appena e con fastidio il perimetro biologico: i bambini venivano già vestiti da adulti, e il pubere da parte sua non vedeva l’ora di farsi crescere dei grossi baffoni o delle incolte barbe per “sembrare adulto” il prima possibile (guardateli i dagherrotipi dell’800, sono terribili, altro che gli hipster di oggi).
I giovani di quegli anni sotto esame di Habsbawm, invece, non considerano più l’età giovanile un’età di passaggio o di preparazione alla vita adulta (Shakespeare ammoniva che “la maturità è tutto” e Croce incalzava scrivendo che “Il problema dei giovani è quello di crescere”). No, i giovani di quegli anni per la prima volta nella storia impongono il loro rito di passaggio, e non come periodo di transizione appunto, ma “come lo stadio finale dello sviluppo umano”. Se non proprio giovani, giovanili si può essere per tutta la vita.
Due caratteristiche ha secondo Habsbawm questo movimento giovanile, che non è solo il ’68 ovviamente, ma che inizia dal punto di vista del costume con il rock degli anni ’50 e con quella musica , con quell’atmosfera che possiamo ancora ammirare in “Grease” o in alcune scene di “Ritorno al futuro”: a) è una cultura “demotica”, ossia di ispirazione popolare; occorre qui specificare che i protagonisti principali della rivoluzione, i giovani borghesi, attingono alla cultura dei ceti subalterni, quella elaborata dai Toni Manero, i giovani poveri che vivono negli slums, appropriandosene in qualche modo; b) è una cultura “antinomiana”, ossia è avversa a ogni tipo di regola.
Questo carattere antinomiano, che noi volgarmente chiamiamo “ribelle” ha dei risvolti singolari perché si salda con le esigenze capitalistiche della incipiente società dei consumi di massa. Qui Hobsbawm trova parole di una sintesi scultorea per chiarezza e intelligenza critica.
«Paradossalmente i ribelli contro le convenzioni e le restrizioni sociali condividevano i presupposti sui quali era costruita la società dei consumi di massa o almeno le motivazioni psicologiche sulle quali facevano leva con più efficacia coloro che vendevano beni e servizi ai consumatori».
Capite? Le ragioni dei ribelli si saldavano con le esigenze del capitalismo consumistico, sistema economico che non poteva trovare migliori alleati. Ragazzi ribellatevi e consumate! È il nuovo imperativo categorico. Consumate salopettes, dischi in vinile, jeans, giornali giovanili di opposizione, chitarre elettriche, ecc. ecc. Più vi ribellate, più consumate, più la ruota dentata del capitalismo gira a pieno volume.
***
Queste osservazioni di Hobsbawm sono da connettere con altre note interpretazioni del movimento giovanile anni Sessanta. Quella di Pasolini innanzi tutto che intravvide in questo comportamento “contraddittorio” una sorta di “fascismo culturale”. Non è mia abitudine usare la categoria di “fascismo” come un passe-partout terminologico di carattere latamente metaforico e “culturale” che stigmatizza spesso tutto ciò che non condividiamo o che non ci piace e che si estrae spesso a piacimento da quello che deve restare un periodo e un fenomeno storico-politico ormai defunto. Ma la locuzione è quella usata da Michel Clouscard che cita proprio Pasolini (in “Refondation progressiste face à la contre-révolution libérale”, L’Harmattan, 2003, p. 37). Clouscard peraltro condusse buona parte delle sue analisi notomizzando proprio le connessioni tra fascismo o neo-fascismo e ideologia del desiderio, “Néo-fascisme et idéologie du désir, Denoël, collection « Médiations », Paris 1973, è il titolo di un altro suo libro.
In questo “Réfondation”, Clouscard sottolinea ciò che con altre parole Hobsbawm aveva indicato nell’oggettiva “intesa cordiale” tra pulsioni libertarie e società liberale capitalistica. Clouscard è molto severo: sostiene addirittura che Cohn-Bendit (celebre leader del Maggio francese Ndr) indicato come “simbolo della società permissiva” abbia preparato addirittura l’elettorato di Le Pen (padre). Non entro in queste torsioni dialettiche, ma ho accennato a Clouscard perché questa saldatura trova in lui forma icastica e piglio polemico molto enragé quando ricostruisce, sulla scia di Marx, una nuova “Sacra Famiglia”: «il Padre Severo, lo Zio Affabile e il Ragazzo Terribile: De Gaulle, Pompidou, Cohn-Bendit. In termini politici abbiamo: il reazionario, il liberale, il libertario. Queste sono le tre figure della borghesia della modernità, i protagonisti di un gioco sociale inedito» p.29. Ciò che occorre sottolineare qui è che Clouscard intravvede nei tre uomini degli obiettivi complici, non degli oppositori, ma dei compari che si danno i ruoli di apparenti oppositori. «L’enorme impostura della contestazione e della trasgressione è di celebrare ciò che esse pretendono di denunciare», scrive Clouscard. p. 27
Altra analisi da connettere assolutamente all’acuta osservazione di Hobsbawm è la nozione di “desublimazione repressiva” di Herbert Marcuse in “L’uomo a una dimensione”. Ho trattato questo tema altrove, qui riassumo dicendo che secondo Marcuse, questo modello di desublimazione, ossia di soddisfazione non differita, ma immediata dei desideri, si è diffuso in tutta la società, incoraggiato dal potere che vede in esso un modo eccellente di perpetuare il suo dominio e di ridurre i soggetti a una unica dimensione: quella della soddisfazione immediata del consumo, che pertanto non è più liberatoria, ma repressiva appunto. Infatti, se la sublimazione è un rifiuto del mondo dato ed un modo di oltrepassarlo con l’erotizzazione sublimante, la desublimazione è una sottomissione cieca agli impulsi e dunque una piatta accettazione dello stato delle cose esistenti.
Hobsbawm non cita ovviamente né Clouscard, né Marcuse, ma il contesto argomentativo è quello, e tocca a noi lettori fare le dovute connessioni.
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