Storia

“Libertà per la storia”. D’accordo. Ma per fare che?

11 Febbraio 2021

Di L’ossessione della memoria. Bartali e il salvataggio degli ebrei: una storia inventata, di Marco e Stefano Pivato (Castelvecchi editore) il rischio è che rimanga al centro della discussione la parte più scandalosa o l’aspetto più impressionistico: la vicenda dell’azione di Gino Bartali e dei documenti per il salvataggio degli ebrei a Firenze.

Quello è certamente l’aspetto immediatamente più eclatante, ma non è quello centrale del libro. A mio avviso è il pretesto del libro. Ci tornerò tra poco, prima consideriamo la questione che ha appassionato e fatto discutere in queste settimane. Cominciamo dall’inizio.

L’inizio è che Stefano Pivato nel 2018 quella volta da solo, amplia un testo dal titolo Sia lodato Bartali (prima edizione: 1985), in cui si sofferma con molta attenzione sulla vicenda del salvataggio sostenendo la tesi della veridicità di quella storia che ha portato nel 2013 Il centro Yad Vashem di Gerusalemme a iscrivere Gino Bartali tra i giusti delle nazioni.

Quella del 2018 è la terza edizione e si segnala soprattutto per il sottotitolo – “Il mito di un eroe del Novecento”. Il libro percorre l’intera vicenda pubblica o dell’uso pubblico dell’immagine di Gino Bartali: da campione popolare che ha spesso diviso l’opinione pubblica: e in cui profilo biografico di un uomo, di uno sportivo, ha assunto i contorni di un valore che trascendeva l’ambito sportivo per entrare nel vivo delle emozioni e dei vissuti della nazione. Così egli anni del fascismo il mondo cattolico si rifà al corridore toscano per definire le virtù del “magnifico atleta cristiano” da contrapporre ai caratteri dell’eroe sportivo muscolare propagandato dal Regime; nel secondo dopoguerra, nel pieno della guerra fredda, quando le rivalità sportive esistenti vengono inevitabilmente caricate di connotazioni politiche, l’immagine virtuosa di Gino Bartali, “cattolico e democristiano” viene contrapposta a quella del “comunista” Fausto Coppi, che in realtà non è comunista ma i cui comportamenti privati, nel campo della sfera sentimentale e famigliare, non possono essere accettati da un’Italia moralista. Ancora nel dopoguerra, la sua vittoria al tour nell’estate del 1948 secondo alcuni osservatori dell’epoca “sdrammatizzò” le tensioni seguite all’attentato a Palmiro Togliatti (14 luglio 1948).

Una parabola che poi ha avuto una nuova stagione con il riconoscimento di “giusto tra le nazioni” e che nel 218 Pivato condivide e non contesta e che ora in questa nuova versione del libro invece respinge.

Riassumo brevemente la questione. Il riconoscimento di “giusto delle nazioni” a Bartali è stato conferito nel 2013 sulla base di u ‘attività in favore di ebrei perseguitati a Firenze, collaborando con il rabbino e l’arcivescovo della città. In particolare, tra il 1943 e il 1944. In quel periodo avrebbe fatto da “corriere” tra l’arcivescovado di Firenze e il convento francescano di Assisi trasportando (tenendoli nascosti all’interno del telaio della sua bicicletta) i documenti necessari per fornire una nuova identità ai perseguitati, per consentire loro di espatriare.

Secondo Marco e Stefano Pivato questa attività non è surrogata da prove e dunque respingono la fondatezza di quel riconoscimento. Non ci sono prove di testimonianze dirette, ovvero di figure presenti in quel contesto che certifichino la dinamica di quegli atti; non ci sono prove nelle memorie di chi allora c’era e poi successivamente ha scritto di quel tempo a Firenze. Non ci sono tracce di un appartamento di proprietà della famiglia Bartali, e in cui sarebbero stati nascosti, protetti e dunque salvati ebrei.

La stessa istruttoria – e dunque la mole di documenti, testi, prove, testimonianze, su cui il comitato di Yad Vashem ha conferito il riconoscimento – non è vedibile. La vedibilità di quella pratica, per esempio, consentirebbe di capire sulla base di quali prove, documenti, riscontro è stato dichiarato quell’atto. Ma pur avendo chiesto di consultarla, quella pratica non è stata messa a disposizione di Stefano Pivato.

Dunque, concludono Marco e Stefano Pivato, la realtà è che noi ci troviamo di fronte a un risultato che è l’effetto di voci che si autoalimentano, in cui ognuna trova giustificazione nell’altra, ma alla cui base non sta una prova. Un meccanismo verrebbe da dire che Marc Bloch esattamente un secolo fa ha magistralmente descritto nel suo Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra (testo tradotto in Italia da Donzelli  e che esce in prima edizione nel 1921 nella “Revue de Synthèse Historique”).

Il tema dunque è come si creano i falsi in storia, sostengono Marco e Stefano Pivato, anzi più precisamente come si producono falsi in storia. Più spesso racconti, imprecisi di storie che non sono “invenzioni” ma trasformazione e accumulo nel tempo di alcune cose vere, e molte “costruite” e che dunque definiscono la dimensione di “falso” distinta, da quella di “finto”. Una dimensione in cui è essenziale l’invenzione, ma più che l’invenzione è essenziale l’accumulo e la somma di singole componenti non verificate o solo parzialmente riscontrate.

Il centro del libro, tuttavia non sta in questa parte che occupa circa l’ultimo terzo del libro. Il centro e la questione che stanno a cuore a Stefano e a Marco Pivato è il presupposto che consente che si producano “false notizie”: ovvero la crisi della storia. Meglio: la crisi del racconto storico e delle pratiche di indagine storica.

Una crisi che, precisano, non nasce dalle pratiche di memoria, ma dalla modalità con cui si è prodotta e proposto racconto di storia.

Quella della costruzione del racconto di storia è una questione su cui negli ultimi anni molti storici sono tornati a riflettere, spesso con preoccupazione, comunque con inquietudine. Per esempio, in queste settimane, Adriano Prosperi con il suo Un tempo senza storia, uscito in libreria n queste settimane.

Marco e Stefano Pivato ripercorrono complessivamente questa vicenda e credo che sia un profilo di riflessione di grande spessore su cui varrebbe la pena tornare a ripensare la crisi della funzione pubblica degli storici oggi a fronte della dimensione memoriale come terreno e come procedura narrativa della storia, ovvero dei “fatti come andarono, per davvero”.

E tuttavia quella condizione incerta e precaria della storia non dipende solo da un gigantismo della memoria.

Dipende anche da una metamorfosi della pratica di noi storici in questi ultimi venti anni. Non dipende dalle fonti che si usano. Anzi la moltiplicazione e la molteplicità delle fonti è un presupposto per rendere il racconto di storia maggiormente inquieto, non definitivo, «aperto» secondo una procedura di indagini sulle fonti usate, sulla creazione di nuovi significati che si è arricchita con la consapevolezza delle molte discipline che l’indagine storica ha bisogno se vuole ricostruire – anche approssimativamente – il contesto entro cui collocare le azioni degli individui snello scenario della storia.

Marc e Stefano Pivato giustamente ripropongono i percorsi di innovazione storiografica aperti con la microstoria, con la discussione sui percorsi della storia sociale aperti con Franco Ramella e il volume da lui curato dal titolo Dieci interventi sulla storia sociale (Rosenberg & Sellier 1981).

Un percorso che forse avrebbe senso riaprire da Les usages politiques du passé, un volume che è un lontano discendente di quella discussione e che François Hartog, Jacques Revel pubblicano nel 2001.

Volume che propone tre questioni:

1.       Manipolazione del dato storico e dunque ridiscussione intorno alla costruzione della memoria.

2.       Competenza e preparazione degli storici a rispondere alle domande sul senso dei fatti storici se legati e connessi con il presente

3.       I temi di discussione storica sono divenuti i tempi della discussione pubblica e dunque lo storico si trova ad essere contemporaneamente, il competente che deve dare ordine al tema, ma anche colui che deve scegliere «dove collocarsi».

In quel testo un tema essenziale secondo me lo poneva Giovanni Levi in un saggio dal titolo Le passé lontain. Sur l’usage politique de l’Histoire che muove le sue considerazioni non da un dato teorico, ma da una condizione culturale concreta in atto in quel momento. Il testo di partenza per Giovanni Levi è Il passato di un’illusione. Quando Furet propone quel suo modo di considerare chiusa la questione della parabola del comunismo la sua idea è quella conclusione rappresenti un esito ottimistico della crisi. Allo stesso tempo ci dice che il futuro non è prevedibile, perché il passato della storia non è in grado di fornire quegli elementi tali da offrire un quadro di lavoro che consenta di fondare una previsione confortata dal passato. Ovvero: la storia non ci fa vedere ipotesi di futuro e, allo stesso tempo, non è più magistra vitae.

Con ciò si rovescia o di dissolve una convinzione profonda. Ovvero non risulterebbe più fondato il senso comune che dice che il racconto della storia non solo sia vero, ma anche autentico, ovvero che esista una  forza autoritaria del racconto della storia come verità e che la narrazione storica si stabilisce un patto tra lettore e storico: il lettore chiede allo storico che racconti e poi accredita quel racconto come vero perché glielo fornisce lo storico.

Osserva Giovanni Levi che “E’ proprio in questo rapporto, nella solidità di questo rapporto che si radica la possibilità di dire coscientemente il falso e di essere creduto”.

Questa dimensione del falso aumenta nel momento in cui non è più il libro che veicola la storia. La dimensione del falso aumenta nel momento in cui aveva intuito Bloch i percorsi e gli snodi in cui si forma no le convinzioni, sono sempre meno supportate e fondate su riscontri e sempre più sulle parole dette/ascoltate/riferite/ripetute. In questa filiera in cui «la parola corre» sempre più autorevolezza torna ad avere chi parla, più che la fondatezza di (e la possibilità di verifica su) ciò che dice.

Ecco l’origine del nodo che dobbiamo sciogliere oggi sta qui.

Che cos’è oggi il libro di storia? Come si costruisce? Ha ancora una funzione? Come può averla?

Soprattutto: il libro è il luogo in cui si definiscono narrazione e ricostruzione critica del passato? Dipende solo dall’invadenza della memoria come sostengono dal 2007 Pierre Nora e Françoise Chandernagor nel loro Liberté pour l’histoire? Ed è sufficiente tornare alla centralità del libro di storia per ripristinare un codice infranto, o agli storici oggi deve essere chiesto una capacità di pensare racconto storico, ricostruzione critica, padronanza e capacità di analizzare le fonti, confidenza con le fonti nuove su cui non c’è una tecnica già costruita nel tempo della società di massa del Novecento?

In breve, per chiudere.

Benissimo chiedere una rinnovata libertà per gli storici, ma poi il problema è: con quale capacità di analisi? con quali tecniche di scavo e di indagine? con quali competenze di metodi, e di strumenti?

Perché se quella libertà è rivendicata solo per scrollarsi di dosso le domande imbarazzanti del tempo presente, o l’invadenza del pubblico, anche in maniera disordinata, allora il dubbio è che quella lotta per la libertà sia solo l’ennesima ripetizione di una rivolta di una corporazione che ha la nostalgia di un tempo andato ( e dove dunque  è forte, radicato e profondo, il senso di appartemenza di casta).

Qualcosa che assomiglia molto alla supponenza e il cui fine è solo la restaurazione di un ordine sociale delle competenze e non l’aggiornamento e il rinnovamento complessivo del “mestiere di storico”.

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