Storia

Liberazione e Silenzio

26 Aprile 2015

Nei paesi italiani e in particolare in Emilia ci si divideva, infatti per pochi fossero gli abitanti c’erano sempre due Bar. Probabilmente questa necessità di separarsi e al contempo di far parte di un gruppo numeroso, anche se solo idealmente, è nata da una coesione forzata di cui i nostri nonni hanno vissuto sulla pelle violenze, debolezze ed esiti tragici. Sarebbe interessante sapere come si dividevano prima. Oggi i Bar si sono moltiplicati ma le idee sono sempre più convergenti o forse, la loro numerosità riflette un cambiamento di funzione d’uso, dei Bar intendo.

Ad ogni modo era l’estate del 1998 o 1999, non saprei localizzare meglio, e dopo una giornata qualsiasi a fare cose qualsiasi da bambino o poco più, arrivava sempre una sera qualsiasi, quelle sere estive rumorose, mi ricordo ancora il caldo. La soluzione era unica, tuo padre doveva andare a prendere il gelato per tutti ma quella sera, in via del tutto eccezionale, presi la bicicletta e andai da solo. Mi rivedo percorrere il tragitto verso la piazza del paese con quel misto di timore e fiducia che provano tutti i bambini timidi in questi casi, sotto sotto sperando di non incontrare nessuno. Dove abitavo, un paese di poco più di mille abitanti, abbastanza vicino alla città e abbastanza lontano per non essere una periferia cementificata, i Bar erano rimasti due. Puro caso, la Casa del Popolo era ormai un Pub-Pizzeria che sarebbe diventato un decennio dopo un altro Pub-Pizzeria per poi chiudere e poi si vedrà, così l’unica differenza tangibile era rappresentata dai gelati: artigianali da una parte e confezionati dall’altra. Un gelato grazie, 1500 lire grazie, posso sedermi fuori? Grazie.

La distesa era fatta di panche e tavoli di legno arancio e verdi, esatto quelle con la seduta stretta da festa della birra che a fine anni ’90 forse non esistevano neanche ma l’arredamento stile festa-della-birra è sempre esistito, sotto un tendone a strisce bianche e rosse. Conoscevo quasi tutti, di vista si intende, alcuni parenti dei miei compagni di scuola, anche se loro non riconoscevano me, e altre facce note. Seduto con il mio gelato a guardare le pagine rosa de La Gazzetta dello Sport. Data la mia incredibile passione per il calcio dovevo veramente solo far qualcosa per riempire il tempo. Giravo pagine leggendo titoli che dopo un minuto mi sarei scordato.

Qui inizia il racconto perché alzando lo sguardo si era materializzato, senza che me ne accorgessi assorto com’ero dalla mia posa, un uomo anziano. Di chi sei figlio? E la risposta standard chissà perché ma è sempre il cognome del padre, mai della madre. Quanti anni hai? Eccetera. Fin qua niente di particolare, tanti anziani sono curiosi, sembra quasi che avvertano la comunità come immodificabile e di riflesso domandano. Come ha potuto un discorso banale prendere una piega che ricordo meglio dell’anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, non me lo so spiegare. Devo infatti avergli rivolto a mia volta una domanda di pura cortesia, certamente generica, anche questa un riempitivo, al pari del giornale rosa.

Mio fratello non era cattivo. Abitavamo di fronte alla Madonnina là in fondo, hai capito che casa che dico? Era tornato dalla guerra del quindicidiciotto, sai gli avevano anche sparato a una gamba. Qua non c’era più niente, non avevamo più niente, potevamo solo lavorare la terra ma per lui era fatica. Aveva iniziato a vestirsi di nero. Zoppicava ma iniziava a guarire. In paese ci volevano bene tutti, lo chiamavano e lui aiutava i loro figli che entravano nella nostra casa, anche loro vestiti di nero. Veniva un sacco di gente. Lui non aveva picchiato nessuno! Mi ricordo che avevano fatto un banchetto di fronte alla Chiesa, prima che la bombardassero, proprio lì, e tutti nel paese consegnavano i loro anelli d’oro. Poi è scoppiata la guerra. Tutti mi guardano perché sono suo fratello. L’hanno ucciso e io sono sempre suo fratello.

All’epoca dei fatti, quest’uomo doveva avere la mia stessa età, un bambino. Non so nemmeno il nome del fratello fascista, mai è stato pronunciato in paese anche se potrei scoprirlo in qualche archivio se volessi. Semplicemente non esistevano entrambi, almeno fino a un minuto prima. Non era una storia originale la sua, uno dei tanti che avevano seguito Italo Balbo portando la nostra città a essere una vera e propria fucina di squadristi, come non doveva essere stato più solerte di tanti altri, dato che il solo avvenimento tragico ricordato pubblicamente è la distruzione del campanile a opera degli Alleati, che crollando portò con sé 38 persone. Per caso, come succede spesso in guerra.

Aveva parlato come vittima di un olio di ricino linguistico, che sorte, era incontenibile e in cerca di un sollievo, ma alla fine non sembrava liberato. La colpa non sembrava potersi depositare in lui, seppur innocente. Gli sedeva affianco e lo pungeva ogni giorno, la colpa. Quasi gli schermava la vista quando in bicicletta andava al lavoro nei campi, lo accompagnava al Bar e gli parlava, la colpa, appiccicosa. Forse vedeva ogni giorno la nappa nera nervosa ai lati del fez di uno dei tanti amici, ospitati in casa e poi perduti, oppure l’oro della Patria che illuminava un cielo grigio.

Cosa ci rimane di questo 25 Aprile settant’anni dopo? Cosa rimane alla mia generazione quasi interamente proiettata al di fuori? Cosa rimane a me? Molto più di quello che tanti giornalisti dai giudizi sommari ci vogliono far credere, magari accusando il sistema scolastico perché si sa, è sempre colpa di un professore. Non ho elaborato fino in fondo quel tormento e quelle parole, ricordate oggi non so come dopo anni e anni e subito fissate su carta, ma se dovessi rispondere direi la caleidoscopica colpevolezza in quell’uomo e il silenzio del mio bisnonno, sottufficiale della Regia Marina deportato e sopravvissuto. Un silenzio colossale dovuto a un eccesso di realtà, un silenzio che può esprimere tutto proprio a noi che di immagini ne abbiamo viste fin troppe.
P.S.

Nel frattempo in quel Bar i gelati non si fanno più.

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