Storia

L’Europa presente e quell’idea di futuro che non c’è

16 Maggio 2016

Quante bandiere ancora saranno a Bruxelles alla scadenza naturale dell’attuale mandato? Le stesse di oggi? Di meno? Difficile pensare che saranno di più.

Per la prima volta dal 1979 l’Europa è un club  da cui uscire è memglio che aderire. E pensare che due anni fa, all’inizio, di questo ultimo mandato, la volontà era di coinvolgere in prima persona l’lettorato europeo. L’idea era che il candidato dell’aggregazione politica più votata dovesse essere indicato dal Consiglio Europeo come Presidente della Commissione. In questo modo la scelta sarebbe stata sottratta al negoziato intergovernativo e rimesso agli elettori. Così è stato eletto Junker, anche se molti fanno conto di dimenticarlo.

In altre parole l’idea era che il principio di maggioranza consentiva di rimpossessarsi della politica, contro l’unanimismo, pratica della mediazione e dunque del corridoio, dove l’elettorato “non è ammesso”. Paradossalmente , si potrebbe dire, la delusione segue il dato della partecipazione e non è la conseguenza della marginalizzazione. E’ un’immagine che è bene tenere ferma davanti a noi perché la retorica dell’antipolitica che oggi corre forte fa presto a confondere le carte sul tavolo. Ed è un ‘immagine forse imbarazzante ma che illustra bene il meccanismo della memoria, quella auto celebrativa, propria di tutti coloro che si dipingono come vittime,e dunque si presentano come coloro che subiscono e la cui collera è comunque “giustificata” e  quella autocritica, che prima di tutto scegli il corno della responsabilità se deve fare i conti sia con il passato , sia con il presente. Tra le due è solo seconda, credo che ci consenta di pensare un futuro democratico.

Sostiene Pierre Nora (Come si manipola la memoria, Editrice La Scuola) che noi viviamo ormai solo nel presente, che una volta che abbiamo lentamente prosciugato l’idea di futuro, il nostro problema è come dare spessore al presente. Ovvero riconoscere al presente il peso di una storia, non riducendo il presente a un’istantanea.

Non credo sia un passaggio semplice (in ogni caso la scomparsa dell’idea di futuro non mi sembra un’affermazione priva di conseguenze). Ma detto questo resta comunque la sfida di pensare il nostro presente come carico e definito da una storia. Lì si pone la questione di dare una fisionomia al nostro tempo altrimenti l’effetto è la spensieratezza. Possiamo permetterci di essere spensierati? Non credo, ma questo dipende anche da quale azione mettiamo in atto quando ragioniamo di memoria e di legame con il passato verso il futuro.

Anni fa Laurent Binet, autore di HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich (Eianudi), alla domanda a chi servisse la memoria ha detto che “la memoria non è di alcuna utilità a chi viene onorato, ma serve a chi se ne serve. Grazie lei mi costruisco e grazie a lei mi consolo”.

Si potrebbe dire che è un’osservazione ovvia. Come tutte le frasi che nella loro semplicità mettono a nudo un problema, quell’affermazione a me pare meno banale di quanto non possa apparire a prima vista. Ed è così, mi pare, perché ciò a cui allude è un’operazione in cui la memoria non è la conservazione di un fatto del passato, bensì è la sua costruzione per il presente di chi nel presente vive, qui e ora, ovvero noi.

Si possono riconoscere molte funzioni di memoria.

Vale la pena accennare brevemente a due. La prima suona così: La memoria non è il ricordo. La memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro. La visione della memoria che discende da questa filiera parte dal passato si innesta nel nostro presente e prova, in funzione della rilevanza di ciò che si ricorda, di proporre una gerarchia di cose da ricordare, da cui deduce una regola, una norma, un principio che dia un senso alla nostra idea di futuro che desideriamo condiviso.

Ma la memoria non è solo questo. per certi aspetti indica un processo opposto o comunque molto distante dal primo. Memoria in questa seconda accezione è quel pungolo che nel presente manda alla ricerca di fonti e suggestioni nel passato per provare a progettare futuro.

Il centro in questo caso si sposta dal passato e si colloca nel punto mediano tra presente e futuro. Cambia radicalmente la prospettiva, non c’è più un passato da ricordare, non ci sono “morali della storia”, ma ci sono progetti che devono trovare un loro ancoraggio nella storia, devono cioè essere sottoposti a una prova di verifica e dunque vanno in cerca di precedenti per tentare di dare solidità e sostanza alla propria visione di domani.

Noi oggi stiamo in un terreno incerto segnato da entrambi questi percorsi.

Il primo dice, apparentemente in conformità con la funzione di memoria di primo tipo, che la memoria è prescrittiva, serve per dare delle norme per poi fare qualcosa, o per rendere possibile quel qualcosa.

ll secondo invece sceglie l’altro asse e dunque si pone il problema se il futuro che progetta abbia o meno un fondamento, si doti di una “eredità”, trovi nel passato le risorse che lo rendono comunicabile, lo spieghino o indichino alcuni contenuti. Il passato non è la premessa del futuro, ma il deposito di suggestioni che lo rendono possibile, o almeno non improprio.

Per quanto lontani, persino apparentemente opposti, questi due percorsi appartengono allo stesso campo mentale. Partono dal presupposto che ci sia un futuro, che valga la pena pensarlo e che questo futuro mantenga connessione con il passato e che, dunque, valga la pena conoscerlo, o almeno sapersi muovere in quel passato, anche, per non fare del passato solo un luogo delle proprie ferite o dei torti subiti di cui chiedere conto. Ovvero proponendo una memoria autocelebrativa.

Accanto esiste anche una possibile funzione autocririca della memoria  al centro della quale stanno i valori, i simboli, o le parole chiave di qualcosa che assumiamo come principio strutturale del nostro agire, come macchina generativa del nostro fare e che invece verifichiamo in contraddizione col nostro agire, nel presente, e anche nel passato. In questo caso l’atto di memoria si fonda su un dato ricorrente di confronto tra valori a cui dichiariamo di dare adesione e le azioni che abbiamo compiuto. Un processo di confronto che spesso produce la memoria  dei torti che abbiamo riservato ad altri.

La memoria autocritica, a differenza di quella auto celebrativa, non fonda uno sguardo vittimario sul passato proiettato nel presente, ma pone il problema della responsabilità. Al centro della memoria autocritica, infatti non sta quello di cui essere fieri o i torti che abbiamo ricevuto da altri, ma quello di cui  c’è da vergognarsi, i nostri atti mancati.

Di quanta memoria auto celebrativa viviamo ( o, altrimenti: quanta ne dobbiamo abbandonare?)  e di quanta memoria autocritica avremmo bisogno per provare a costruire un’ipotesi di futuro dell’Europa?

 

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