Storia
Lepanto, il mito degli eroi cristiani che sconfissero i turchi compie 447 anni
Siamo a quota 447: tanti sono gli anni che ci separano dalla battaglia Lepanto (7 ottobre 1571). Manca poco al mezzo millennio eppure quel nome è ancora in grado di provocare suggestioni. Provate a pensare a qualche altro episodio accaduto quasi cinque secoli fa ancora vivo e mitizzato come l’epico scontro navale tra la Lega santa e gli ottomani: semplicemente non c’è. Un destino luminoso per una battaglia che dal punto di vista militare si è rivelata quasi inutile: doveva servire a impedire agli ottomani di impossessarsi dell’isola di Cipro, in precedenza veneziana, e invece non c’è riuscita; doveva essere decisiva per assestare un colpo alla mortale alla flotta del sultano, al contrario l’anno successivo i turchi metteranno in mare un numero di navi uguali a quello precedente a Lepanto, pur trattandosi di unità costruite in fretta e furia e con legname fresco, quindi destinate a deteriorarsi in fretta. Nonostante ciò, siamo ancora qua a parlarne.
Cipro diventa pienamente veneziana nel 1489, i turchi non possono sopportare quella spina nel fianco e nel luglio 1570 sbarcano un contingente per prendersela. I veneziani, comandati da Marcantonio Bragadin, resistono fino all’agosto 1571 nella fortezza di Famagosta, ma si arrendono in cambio dell’aver salva la vita. Invece le cose finiscono male: i comandanti vengono massacrati e Bragadin addirittura spellato vivo. Un tipetto bello tosto, Bragadin: a un imam che lo esorta a convertirsi all’islam per avere salva la vita, risponde: «can traditor, nemico di dio, brutto becho fotuo».
Papa Pio V ce l’ha parecchio con gli ottomani (il suo successore, invece, preferirà prendersela con i protestanti) e promuove una lega antiturca che riunisce le maggiori potenze continentali europee, Francia esclusa. La flotta degli alleati cristiani affronta quella turca in Grecia, nel golfo di Corinto, non lontano dalla località di Lepanto (anche tra gli ottomani erano numerosi i crisiani, ortodossi greci, innanzi tutto, ma pure armeni).
Lo scontro è epocale: 227 galee cristiane (106 veneziane) e 210 galee ottomane, oltre a un paio di centinaia di unità minori; le sei galeazze veneziane vengono trasformate in fortezze galleggianti e grazie a una tecnica messa a punto da Antonio Surian, detto “l’Armeno”, originario della Siria (quindi un rinnegato ottomano) ruotano di novanta gradi a ogni scarica di artiglieria, permettendo in tal modo un fuoco continuo e scompaginando la linea d’attacco turca. Alla fine si registrano 30 mila morti, feriti e prigionier tra gli ottomani e 12 mila morti e feriti tra i cristiani (tra i quali 4.700 veneziani).
La battaglia mette in evidenza profondissime divisioni nella Lega santa: poco ci manca che prima dello scontro il vice comandante, il veneziano Sebastiano Venier, sia fatto mettere agli arresti dal suo superiore, lo spagnolo don Giovanni d’Austria (figlio illegittimo di Carlo V) per aver fatto impiccare due marinai spagnoli senza chiedere il permesso (toccherà al comandante del contingente papale, Marcantonio Colonna, fare da mediatore). Nella Sala dello scrutinio di Palazzo ducale, a Venezia, un malizioso dipinto di Jacopo Tintoretto mostra le galee del genovese Gian Andrea Doria aprirsi per lasciar passare le unità al comando di Uluç Alì (un rinnegato calabrese), futuro comandante supremo della flotta del sultano. Le cose non sono andate esattamente così, ma di certo è un eufemismo dire che veneziani e genovesi mal si sopportavano. Doria non era proprio ansioso di combattere e badava più che altro a salvaguardare le proprie galee, tanto che un comandante veneziano gli aveva sprezzantemente offerto di assicurargli le navi, nel caso avesse paura di arrischiarle in battaglia.
Nonostante tutto questo, la vittoria cristiana ha un enorme impatto propagandistico: è la prima volta che i turchi le prendono così sonoramente, si dimostra che non sono imbattibili e che la loro potenza non è incontenibile. La notizia della vittoria percorre tutta Europa con le campane delle chiese che suonano a distesa, vengono stampati in tutte le lingue migliaia di libelli celebrativi, un po’ ovunque si commissionano cappelle per celebrare il fatto, si dipingono quadri, si compongono poemi. Ancora oggi in numerosissime chiese esistono dipinti che raffigurano Lepanto, a Roma la ricorda pure una fermata della metropolitana. Ippolito Nievo cita la battaglia nelle “Confessioni di un italiano”, mentre i resti mortali di Sebastiano Venier nel 1907 vengono trasferiti dalla periferica chiesa di Santa Maria degli Angeli, a Murano, nella prestigiosa basilica dei Santi Giovanni e Paolo, a Venezia, con tanto di nuovo, imponente, monumento nonché alla presenza della regina Margherita.
Il nome di Lepanto continua a ricorrere, tanto che nelle prime elezioni del dopoguerra, la Democrazia cristiana si presenta con lo slogan «per una nuova Lepanto», frase con cui identifica il buon cittadino e il buon cattolico. Si pubblicano libri che rinnovano un discreto successo. Lo storico torinese Alessandro Barbero dedica al fatto un tomo di 769 pagine che diventa un bestseller nonostante la ponderosa mole; il fiorentino Niccolò Capponi scrive sulla battaglia pagine accattivanti. Escono romanzi – l’ultimo in marzo, autrice Maria Grazia Siliato – indicati come una lettura utile per capire il periodo storico che stiamo vivendo. Intitolati a Lepanto si ritrovano pure un profumo, un brandy, un puzzle.
A Venezia basta pronunciarne il nome per sucitare ancora emozioni, anche perché i veneziani di oggi hanno ormai ben poco per cui emozionarsi, stretti come sono tra un patriarca genovese e un sindaco compagnolo (inaudito!) e quindi si rifugiano nelle glorie del passato. Lepanto scatena reazioni orgasmiche tra i cattolici tradizionalisti: le si intitolano associazioni di destra, meglio se estrema, che promettono di far fare ai musulmani di oggi la stessa fine che fecero i turchi nelle acque del golfo di Corinto. Le varie anime leghiste non smettono di celebrare la battaglia, vedendo negli ottomani di allora gli antenati degli immigrati di oggi.
Certo, lo scontro di civiltà gioca un suo ruolo, tra l’altro la campagna militare Usa in Afghanistan è cominciata proprio il 7 ottobre 2001 («Una coindicenza? Io non ci credo»: il mantra complottista), ma come ha scritto la storica Anastasia Stouraiti in un saggio dedicato proprio alla mitizzazione di Lepanto, «a determinare ciò che è memorabile è anche la maniera in cui verrà ricordato».
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