Storia
Lenin, il carisma di un leader
Antonio Gramsci, riflettendo sul fallimento dei “Consigli di fabbrica” e sulla mancata rivoluzione operaia del cosiddetto Biennio rosso, scrisse che quell’esperienza non raggiunse i suoi obiettivi anche per la mancanza di un leader come Lenin. Ed in effetti, a fare mente locale sulla rivoluzione bolscevica, fu proprio Lenin con il suo carisma a dare forma e obiettivo alle masse portandole alla vittoria. In questo senso si può ben affermare di Lenin, il quale fra le sue letture non aveva trascurato “la psicologia delle folle” di Gustave Le Bon, che fu un grande seduttore, un leader che aveva fatto tesoro della lezione dell’intellettuale francese per il quale “La folla è un essere amorfo incapace di volere e di agire senza il suo senza il suo menuer. La sua anima è infatti legata al suo meneur.” La rivoluzione bolscevica fu infatti un azzardo, una forzatura inaspettata che solo un uomo di grande carisma come Lenin poteva portare a buon fine. Essa, infatti, si manifestava in un contesto non certo favorevole – i bolscevichi erano una seppur agguerrita minoranza – alla ricerca di un equilibrio nello sfascio generale nel quale era precipitata la società russa e, soprattutto, quella culturalmente più avanzata concentrata a Pietrogrado. Indubbiamente Lenin era un leader senza paragoni, capace di convincere i suoi seguaci di essere in grado di offrire una soluzione, la soluzione attesa dalle masse per uscire dal caos. Queste qualità le aveva manifestate già al momento del suo arrivo alla stazione Finlandia di Pietrogrado dove, la sera del 3 aprile 1917, l’attendevano i maggiorenti del partito. Maxim Gor’kij, che quella gelida sera era fra quanti gli spettatori e descrisse quell’arrivo, colse bene questo rapporto particolare fra il leader e la folla. Lo scrittore russo Scrisse : “E là, attorno al blindato – Lenin era stato fatto salire su un blindato che l’avrebbe portato a palazzo Krzesinka – la folla è fitta come un corpo solo. E’ come se Lenin si fosse subito innestato nella folla, è scomparso, si è disciolto in essa, ma la folla è diventata più miracolosa è cresciuta”. E’ evidente il senso dell’identificazione della folla col suo capo, individuato come colui che realizzerà il sogno. Riflettendo su questo si comprende anche il perché i leader più importanti del bolscevismo, da Trockij a Kamenev a Stalin, in quell’occasione scomparvero di fronte alla sua personalità e subirono, senza batter ciglio la forte reprimenda per gli atteggiamenti collaborativi nei confronti del governo socialdemocratico, accettando la prospettiva rivoluzionaria che non escludeva ma, anzi, poneva a fondamento la violenza. Lenin appare il messia, e la sua personalità visionaria, eccitata dalle turbe psichiche di cui soffriva, si impose dunque senza opposizioni. La rivoluzione d’ottobre gira attorno a lui e si incarna nella sua figura, facendo del contorno solo delle modeste controfigure. Ma la folla ha sì bisogno di sognare ma quei sogni debbono essere in qualche modo alimentati dai fatti per non perdere valore. Ecco allora ancora la riflessione di Le Bon quando afferma che “nella storia l’apparenza ha sempre avuto un ruolo più importante della realtà”. Lenin sapeva bene che per mantenere il sogno della folla doveva offrire qualcosa di forte e di ancorato al reale. E cosa c’era allora di più forte che la “pace”?. La guerra aveva ferito a morte l’impero, aveva distrutto non solo materialmente la Russia zarista, ma aveva spezzato quei legami culturali su cui per centinaia d’anni si era fondata la società russa. L’aspirazione alla pace diveniva pertanto un fatto culturale, il sogno per stabilire un nuovo legame sociale, una ricostruzione dell’edificio ferito dal disastro bellico. La pace, dunque, era quanto la folla aspettava che il governo socialdemocratico guidato da Kerenskij non aveva saputo dare. E proprio la pace, al di là delle conseguenze che avrebbe avuto sullo stato russo, Lenin offriva ora alle masse con il famoso decreto sulla pace che poi era la proposta a tutti i belligeranti di apertura immediata di trattative per una pace “giusta e democratica”, accompagnate da un immediato armistizio di almeno tre mesi. Stesso discorso, questa volta per acquisire il consenso delle masse contadine normalmente tradizionaliste e restie ai cambiamenti, fu il decreto sulla terra che aboliva la grande proprietà fondiaria senza alcun indennizzo e stabiliva che le tenute dei grandi proprietari fondiari, come tutte le terre demaniali, dei monasteri, della Chiesa, con tutte le loro scorte vive e morte, gli stabili delle ville, castelli e tutte le suppellettili venbivano messi a disposizione dei comitati agricoli di volost e dei soviet distrettuali dei deputati contadini fino alla convocazione dell’Assemblea costituente. Ma, ancora, per affermare la definitiva vittoria della rivoluzione socialista nell’ex impero russo, mancava un atto fondamentale che venne chiamato decreto sulle nazionalità. Lenin aveva chiara la complessità anche etnica e nazionale dell’ex impero zarista e intuiva che una risposta positiva alle richieste di riconoscimento di una certa autonomia a territori che storicamente avevano costituito vere entità nazionali avrebbe impedito la dissoluzione dello stato e rafforzato la rivoluzione e la sua guida carismatica. Ecco perché, nel dicembre del 1922, quando i focolai della controrivoluzione erano stati soffocati dalla forza dell’Armata rossa e dalla violenta repressione delle opposizioni interne, emanò l’ultimo decisivo atto che fu appunto il cosiddetto decreto sulle nazionalità. Sulle ceneri dell’impero russo si dava vita all’Unione Sovietica, una nuova entità statuale federale segnata ideologicamente dal riferimento socialista sovietico. Il carisma di Lenin superò tuttavia i confini dell’enorme stato creato dalla rivoluzione per divenire riferimento del comunismo mondiale e lo dimostra il vero e proprio culto di cui, dopo la morte, è stato segnato per tutto il tempo in cui l’URSS è sopravvissuta a dispetto dei tanti disastri che nel tempo quel regime ha determinato. Quel culto ancor oggi, a cent’anni dalla stessa rivoluzione, continua a sopravvivere. Non è infatti un caso che gli stessi orrori che hanno sancito la sua damnatio memoriae per Iosif Stalin a Lenin vengono invece benevolmente perdonati.
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