Storia

L’elaborazione del lutto

27 Novembre 2020

Ho passato questi due giorni a riesumare frammenti. Avevo bisogno di tempo. Di elaborare il lutto.

La sua generazione anticipa di un soffio la mia, e per me Diego è stato il tempo del calcio giocato, l’inno alla gioia della mia vita.

 

Grazie a lui ho imparato a godere come un riccio. Ma anche a odiare. Nel settembre del 1983, quando il macellaio di Bilbao, tale Goikoetxea gli spezzava di netto la caviglia. Ho usato per mesi quel nome, goicocea, come dispregiativo. Alla pari di ‘uomo di merda’.

Non sono mai riuscito nemmeno a celebrare la grandezza di Gentile. In quella partita mondiale, militare in licenza, tifavo ansimante per Noi, eppure quando prendeva palla Diego una schizofrenia improvvisa mi faceva sperare che venisse fermato ma anche che saltasse lo juventino e creasse l’imprevedibile. Bramavo calcio. Non potevo accettare la lotta greco-romana di Gentile. Che oggi sarebbe improponibile. In questi giorni ho letto una sua dichiarazione di stima verso il fuoriclasse, ma nessuna verso l’uomo, che in quella partita lo aveva apostrofato ripetutamente: hijo de puta. E cosa si aspettava il terzinaccio? Il suo calcio era un insulto. Certo l’unico possibile, per lui. Ma il prodotto non cambia.

L’ultimo insulto arriva dagli Yankee, nel ’94, che lo hanno ripescato e ripulito, per far scendere in campo il Calcio, e non un’affannata recita d’oratorio. Salvo poi inscenare la grande e tragica farsa del doping, e passare dallo spettacolo sublime del football a quello della gogna a caratteri cubitali. Dal pasto per buongustai, a quello per avvoltoi.

 

Si è sempre dovuto difendere. Dalla marcatura delle zanne e dagli abbracci. Amore e odio avevano lo stesso modo di giocare. Marcatura ferrea, si diceva una volta.

E la polvere lo ha sorretto, lo ha sostenuto, lo dice lui stesso in quel bel documentario del 2019 che porta il suo nome, andato in onda giovedi su Raitre: la cocaina lo faceva sentire invincibile.

Diego Armando è stata una reliquia vivente.

Idolatrato, e innalzato oltre ogni vertigine.

Ha cercato un equilibrio.

A voi che dite: non è un esempio per i giovani, rispondo che nessun esempio è più grande di chi arriva dalle briciole e le trasforma in banchetto aperto. Di chi brucia, e si consuma, per tenere accesa una grande illusione. Diego è nelle sue labbra generose. Diego è stato l’ostaggio più prezioso di quel pallone imperfetto che è la terra.

E il più grande. Per distanza. Per Epica.

Un uomo che è andato in una città sconfitta, in una squadra allenata alla mediocrità, e le ha fatte vincere, e risplendere, entrambe. Che ha sopportato i loro e suoi fantasmi per trascinarle in cima all’Italia puzzona e ricca del nord, e poi a quella della lontanissima Europa. Un uomo che ha vinto un Mondiale guidando un gruppo di gregari, increduli, al dunque. E nel nostro, stesso gruppo stagionato, ha perso per una beffa; sostantivo che merita quel rigore tedesco.

Non si può paragonare un calciatore così con nessuno. I suoi compagni diventavano più di quello che erano. Andavano oltre se stessi. Erano eletti. Godevano di gocce di superpotere. E lo amavano. L’avrebbero seguito ovunque. Maradona aveva Cuore e Cazzimma.

Fate voi il confronto con il vecchio Pelè e i due collezionisti di Palloni d’oro in attività.

Non basta vincere: dove, come e quando, fanno la differenza.

Fanno scatenare un oceano di commenti. La gara a tempo dell’inchino e dell’osanna. Ma anche della sufficienza e del rancore. Perché gli dei come Maradona sono di tutti. Anche di chi non ha mai visto una sua partita, o non sa fare tre palleggi. Anche di chi non conosce il languore, quella roba che ti trafigge e meraviglia, nel vedere una giocata che manda a farsi fottere tutto, schemi e soldatini. Anche chi non si incanta di fronte a quella ripetuta carezza, che avanza nella tempesta protetta da un corpo di gomma dura.

 

 

 

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