Storia
Le parole e gli oggetti per dire Mediterraneo
Recentemente lo storico David Abulafia, con il suo Il grande mare ci ha restituito un quadro fatto di innumerevoli paesaggi, spesso non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre, spesso in conflitto, ma soprattutto con tanto, tantissimo in comune. Perché il Mediterraneo è soprattutto tre cose: scambio, navigazione, migrazione.
Laddove i flussi, è bene tenerlo a mente, non vanno in una sola direzione. Il libro infatti ci ricorda, attraverso le storie di questi oggetti, del loro uso, delle loro trasformazioni, di incroci, di strumenti come la chitarra che sintetizzano culture diverse; di arabi che scappano dalla Sicilia o dall’Andalusia verso l’Africa. Sembrerà oggi incredibile, ma una volta da Madrid o da Granada, per non dire da Roma dalla Francia si trovava rifugio a Smirne, a Istanbul per trovare la libertà o praticare pubblicamente la propria fede.
Uo spazio che intorno agli anni ’90 ha iniziato ad essere agitato e dove la rivendicazione della storia antica – ovvero della pesantezza di un passato, che poi diviene ipoteca nel presente e dunque diritto al futuro – si accredita come separazione. Meglio, come contrapposizione.
E tuttavia l’attenzione spesso, quando si ragiona di Mediterraneo, è prevalentemente concentrata sugli elementi di scontro che non sui quelli comuni. Per questo Storia del Mediterraneo in 20 oggetti, costituisce un’opportunità anche un’utile provocazione.
Partire dalla civiltà materiale, dagli oggetti che la vita reale, l’immaginario, ma anche i costumi essenziali (ossia come ci si procura il cibo, come si pesca, per esempio) costituisce un percorso in cui abbiamo molto da imparare e da scoprire, ma soprattutto dove conviene lasciare da parte molti pregiudizi o le molte certezze che costruiscono il senso comune.
Oggetti che testimoniamo e raccontano nella loro trasformazione nel tempo e di comportamenti che hanno accompagnato la loro diffusione nelle pratiche con cui chiunque li tratti, li consumi o li usi anche di comportamenti. Oggetti che spesso costruiscono e definiscono una lingua comune. La rete da pesca, lampada, il corallo, il pane, sono alcuni dei 20 oggetti che Amedeo Faniello e Alessandro Vanoli hanno messo insieme per descrivere il Mediterraneo indicando una lingua comune, un insieme di oggetti, funzioni e, dunque, anche azioni, propensioni, condivise. Una sorta di lingua comune di gesti, intenzioni, abitudini, consuetudini, che nessuno volontariamente riconoscerebbe oggi, tesi come siamo a scartare ciò che nel Mediterraneo ci accomuna e ci unisce, da ciò che invece ci distingue, ci allontana, ci rende reciprocamente estranei, indifferenti, nemici.
Oggetti, ho detto, ma anche concetti. O oggetti che rinviano a storie di vita.
La numerazione, per esempio. Ovvero la storia del calcolo e del processo di costruzione del calcolo dal primo computo digitale all’abaco, fono ai numeri cosiddetti arabi, che però erano indiami, ma Orignano dalla Cambogia, per arrivare fino alla scoperta dello zero.
Come per l’abaco, così per l’anfora, per la rete da pesca, ma anche per la lampara, la padella, la catena.Una storia che inizia col grano (la prima parola che apre il lemmario del volume è “pane”) e finisce con l’acqua (l’ultima parola è “fontana”).
Ogni parola contiene una storia che muove da un qualsiasi punto del Mediterraneo e consente di costruire una rete in cui si sovrappongono pratiche, credenze, opinioni, azioni, convinzioni. Indipendentemente dal tipo di potere, di credenze religiosa, di usi che connotano questo o quel luogo.
Una storia particolare è rappresentata dalla cesoia. Un oggetto che allude anche a una pratica, quella della castrazione. Storia di potere, non solo, ma anche talvolta l’unico percorso in cui, nelle classi basse, si sacrifica un figlio per dargli la possibilità di avere il successo pubblico nel canto, che la famiglia non potrebbe comunque garantirgli. Una storia che anche questa di dolore, di privazione, che Feniello e Vanoli raccontano attraverso le parole di Hayrettin Effendi, l’ultimo eunuco della storia, un uomo che vive a Istanbul ma che viene dall’Etiopia dove viene rapito a tre ani poi venduto. Un altro modo per dire che la storia d’Europa non è solo di coloro che si contendono un grande bacino d’acqua perché nati in un punto delle sue coste, ma che quel mare è anche la storia di chi è arrivato da lontano, spesso non per sua decisione.
Quando ragioniamo di Mediterraneo, conviene tornare a rileggere dei classici. Per quanto incredibile, su alcuni temi, risultano meno ossessionati da pregiudizi di noi contemporanei. Il tema non è il Mediterraneo come essenza, ma il Mediterraneo come metamorfosi, come ambiente in movimento.
Mi ha sempre fatto pensare un testo che Lucien Febvre – uno degli storici fondamentali del’900 -compone nel1940 (quel testo dal titolo Les surprises d’Hérodote ou: les acquisitions de l’agriculture méditerrnéenne è ora leggibile in Vivre l’Histoire) e in cui proprio questa dimensione di ambiente in movimento costituisce il presupposto per parlare realmente e non ideologicamente, di un spazio che è, al tempo stesso, umano, sociale, economico, naturale. In breve, appunto un quadro storico come reale soggetto al cambiamento nel tempo e oggetto di trasformazioni profonde.
Scrive dunque Lucien Febvre:
Immagino il buon Erodoto rifare oggi il suo periplo del Mediterraneo. Che sorprese! Quei frutti d’oro fra le foglie verde scuro di certi arbusti – che gli sono detti «caratteristici di tutto il paesaggio mediterraneo», arance, limoni, mandarini, non ricorda di averli mai visti in vita propria. Sfido! Vengono dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti, dallo stelo fiorito, e da nomi strani, fichi d’india, agavi, aloè; come sono diffuse! ma anche queste non ricorda di averle mai viste in vita sua. Sfido! Vengono dall’America! Quei grandi alberi a fogliame pallido che pure portano un nome greco, eucalipto, giammai si ricorda, il Padre della storia, di averne veduti di simili o di averli incrociati per strada. Sfido! Vengono dall’Australia. E le palme? Erodoto ne ha avuta un’idea una volta nelle oasi egiziane. Che ci fanno sulle coste europee del Mediterraneo’ Lo stesso che chiedersi che ci fanno i cipressi, che vengono dalla Persia.
Questo per quanto riguarda lo scenario. Ma quante sorprese, ancora, al momento di andare a tavola: che si tratti del pomodoro, peruviano; della melanzana, indiana; del peperoncino, originario della Guyana, del Mais, messicano; del riso, dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, né del tabacco dopo il pasto.
Tutte queste spezie, questi alberi, questi legumi, questi condimenti, che nei manifesti a colori per i turisti suscitano dappertutto e ogni volta nostalgie mediterranee, sono tutti dei nuovi arrivati, istallati ieri. Tutti esseri botanici, invece, che noi rappresentiamo piantati volentieri, radicati da sempre nella terra di Grecia, d’Italia, di Provenza, della Sicilia o dell’Africa minore. Elementi divenuti costitutivi del paesaggio mediterraneo.
Una riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini, delle coste senza palme: che cosa può esservi di più inconcepibile per noi?”
Il paesaggio rinchiude in sé la stessa storia degli oggetti e come quelli spesso è ridotto ad essere presentato come l’espressione autentica e incontaminata di un luogo.
Come gli oggetti che fanno parte della vita quotidiana di molte generazioni che si sono incrociate nel Mediterraneo, lo spazio è il risultato lento della storia. Significa sedimentazioni, adattamento e radicamento di oggetti, di colori, di alimenti, di piante, di odori e di sapori, di collettività umane che sono nate altrove e che le circostanze della storia ha sbattuto da un’altra parte.
Niente è artificiale come il paesaggio e niente è ritenuto, da molti, assolutamente naturale, sempre identico a se stesso come il paesaggio. Anche per il Mediterraneo è così.
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