Storia
Le bufale del manifesto sul fascismo
Il manifesto diffuso con la sigla “Noi con Salvini” che mette a confronto il fascismo e la democrazia gira in rete da tempo senza il logo del partito e senza il riferimento a Emanuele Fiano e, anche qualora si scoprisse che è un fotomontaggio e che non è stato autorizzato dai dirigenti, merita un po’ di attenzione.
Il manifesto ripropone alcuni cliché sul fascismo che sembrano abbastanza diffusi non soltanto tra i neofascisti che non da oggi Salvini corteggia, ma spesso anche in quella vasta zona grigia di elettorato e cittadini che, pur non dicendosi fascisti, sembrano essersi ormai convinti della validità di questi assunti. Si tratta di concetti che nessuno studioso serio di storia avallerebbe e che hanno origini ben radicate nella pubblicistica non accademica fin dai primi anni del dopoguerra. Giornalisti brillanti come Indro Montanelli e Mario Cervi, più recentemente Arrigo Petacco e Roberto Gervaso, hanno prodotto un’impressionante mole di volumi di grande diffusione che, pur non essendo ancorati a nessun riscontro documentario o archivistico e ignorando la letteratura scientifica, raccontano come il fascismo fosse un regime “all’acqua di rose” e come gli italiani fossero stati tutto sommato non troppo brutali nel corso della guerra. Sembra incredibile dover tornare oggi a smentire i meriti attribuiti al fascismo, dopo decenni di consolidati studi e faticose ricerche che hanno definito il fascismo come un totalitarismo (non solo ma soprattutto gli studi di Emilio Gentile possono aiutare nella comprensione) e gli italiani come responsabili di crimini (le riflessioni di David Bidussa di qualche anno fa sono state ampiamente consolidate da una notevole quantità di studiosi).
Senza entrare nel merito dei disastri attribuiti alla democrazia (qui fantasiosamente rappresentata da Renzi), può valere la pena sottolineare con qualche breve accenno quello che è falso, storicamente, nei presunti meriti attribuiti a Mussolini.
1) Il fascismo non ha inventato il sistema pensionistico. Il processo che portò alla nascita della previdenza sociale si avviò alla fine dell’Ottocento, con la nascita delle prime casse mutue, per svilupparsi con una serie di norme tra la fine del secolo e il primo Novecento, protagonisti soprattutto Francesco Crispi e Giovanni Giolitti. Nel 1921, alla vigilia dell’avvento del fascismo, in Italia esisteva già una normativa previdenziale (materia ormai definita dalla legge e non a livello contrattuale), che si era già estesa a tutte le professioni (non soltanto quindi al lavoro dipendente o manuale); era previsto l’automatismo delle prestazioni e vi era la partecipazione dello Stato al finanziamento. Il processo si inseriva in un vasto movimento internazionale che nel mondo occidentale vedeva molti paesi avanzare con norme simili in quello stesso periodo. Il fascismo, nei primi anni, addirittura smantellò una parte di queste conquiste, sposando una visione liberista che tendeva a demandare ai privati questo ambito di intervento, salvo poi riscoprire, mentre si andava definendo la concezione corporativista dello Stato, l’opportunità che il pieno controllo statale della previdenza offriva al regime. Dunque, il fascismo non inventò niente, ma inserì all’interno della propria concezione un processo in corso da diversi decenni.
2) Il fascismo non ha inventato le case popolari. L’Istituto Case Popolari nacque nel 1903, con l’obiettivo di costruire case economiche a Roma. Nel primo dopoguerra diverse altre città fondarono i loro istituti. Il processo proseguì negli anni del fascismo, che lo estese alle colonie balneari.
3) Il fascismo non ha fatto leggi sull’assistenza sociale. La famosa “legge Crispi” che regolamentava l’intervento statale nell’ambito dell’assistenza è del 1890. La legge è rimasta in vigore 110 anni, fino al suo superamento con la nuova legge firmata da Livia Turco nel 2000. Il fascismo, così come i governi liberali prima e quelli repubblicani dopo, si limitò ad apportare marginali correttivi, spesso in seguito a sentenze del Consiglio di Stato.
4) Il fascismo non ha reso grande l’Italia. Se si intende “grande” in termini territoriali, alla fine dell’esperienza fascista l’Italia ha perso non soltanto le colonie ma anche parte del territorio metropolitano (l’Istria). Se lo si intende in termini geopolitici, si pensi soltanto che l’Italia era prima dell’avvento di Mussolini uno dei paesi vincitori della Grande Guerra e come tale sedeva di diritto a tutti i principali tavoli europei e internazionali. L’eredità che Mussolini ha lasciato è stata quella di un paese in macerie, che ha dovuto accettare le condizioni di pace imposte dagli Alleati. Dov’è la grandezza in questo disastro?
5) Durante il fascismo non c’era lavoro per tutti, anzi la disoccupazione era alta. La disastrosa politica di apprezzamento della moneta (“quota 90”) fece trovare l’Italia in condizioni di estrema debolezza quando giunsero in Europa gli effetti della crisi del ’29: nel 1933 i disoccupati superavano il milione (su una base di abili al lavoro molto ristretta, essendo il lavoro femminile poco diffuso) e non si può considerare la guerra d’Etiopia una valida misura di politica economica per impiegare i giovani disoccupati.
Nonostante gli studi consolidati, queste bufale ― che comunque, oltre a essere false, non tengono conto del nodo cruciale, ossia che nessuna eventuale buona realizzazione del fascismo ne attenua la sua natura di regime totalitario ― continueranno a circolare e molti ad abboccarvi, ma non dobbiamo mai stancarci di smentirle, sperando che almeno una parte di coloro che ci credono si convincano, almeno, a fare qualche verifica.
Devi fare login per commentare
Login