Storia

L’Argentina e la dittatura

3 Gennaio 2015

Il 24 marzo del 1976, in Argentina, un colpo di Stato depone il governo di Isabel Perón, insediando una giunta composta dai capi di esercito, marina e aeronautica. A presiderla, il generale Jorge Rafael Videla. Bastano poche settimane, ed ecco il programma di governo, il cosiddetto Proceso de reorganización nacional.

L’obiettivo è porre fine ai disordini e creare una società sicura, basata sulla morale cristiana, con profonde riforme economiche e dell’educazione. Per farlo, vengono sciolti il parlamento, i partiti, i sindacati e sostituiti i giudici della Corte suprema. La realizzazione, come spesso avviene, necessita della sospensione delle garanzie dello stato di diritto e istituisce la pena di morte per i “reati contro lo Stato”, cioè la lotta contro il terrorismo. I terroristi sarebbero coloro che destabilizzano il paese prendendo di mira le forze dell’ordine e i membri del regime, ma di fatto sono considerati tali non solo coloro che sparano o fanno esplodere bombe, ma chiunque diffonda idee “contrarie all’Occidente e alla civiltà cristiana” (così Videla sul “Times” del 4 gennaio 1978).

Quindi, prima l’obiettivo sono i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i simpatizzanti, gli indifferenti, e infine, in mancanza d’altro, anche i loro nemici troppo esitanti, come affermava il generale Iberico Saint-Jean, governatore della provincia di Buenos Aires: «Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente, e infine uccideremo gli indecisi». Come programma non c’è male: una rete di squadre della morte farà segretamente sparire migliaia di oppositori veri e presunti.

Dove finivano i prigionieri? Morti sotto tortura, fucilati, venivano gettati in mezzo all’oceano, sepolti in fosse comuni, cremati (nel principale cimitero di Buenos Aires si passa dai 13.120 del 1974 ai 20.500 del 1976 e ai 32.683 del 1977 per ridiscendere a 21.381 nel 1980),  o buttati in fondo al mare con un blocco di cemento ai piedi.

Per evitare la visibilità del caso cileno, era una nuova categoria di persone: i desaparecidos. Se la polizia non li aveva visti, il governo non capiva, la chiesa non si pronunciava, le carceri non registravano la loro detenzione, i magistrati non intervenivano (Verbitzky 2001). I desaparecidoso erano diventati non-persone: senza diritti, senza esistenza, senza prigionia, anche se rinchiusa in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi di tortura. Anche le famiglie tacevano, terrorizzate dalle minacce, ricattate, o nella speranza che il silenzio avrebbe contribuito al rilascio dei loro cari. Come di consueto, la tortura serviva a estorcere confessioni e denuncie illusorie, e allargava a macchia d’olio la rete delle persone coinvolte (cioè sospette e per ciò stesso colpevoli). Beccaria non l’avevano letto.

 L’economia fallimentare provocherà un rimpasto di governo, con la sostituzione di Videla e infine la caduta del regime, dopo la sconfitta nella guerra delle Falkland/Malvinas. Roberto Viola e Leopoldo Galtieri, subentrati a Videla, lasceranno il comando a una giunta di transizione che dovrà portare il paese alle urne, non prima, però di proclamare un’amnistia preventiva per tutti i crimini commessi nella “lotta al terrorismo”. L’amnistia preventiva è una contraddizione, perché prima di amnistiare qualcuno occorre che ci sia un processo di condanna definitiva, e prima ancora un’accusa. L’amnistia preventiva equivarebbe dunque a un’autocondanna?

Nel 1983 le elezioni sono vinte da Raúl Alfonsín, leader del partito radicale. Riunitosi il 10 dicembre, anniversario della dichiarazione dei diritti umani, in poche settimane il governo pensiona decine di alti militari, annulla l’autoamnistia e nomina la Comisión nacional sobre la desaparición de personas, che dovrebbe indagare sui crimini della dittatura e stabilire una verità ufficiale.

 La verità era nota, anche se non nel dettaglio, ad alcune investigatrici speciali. Sin dal 30 aprile del 1977, in Plaza de Mayo, le Madres (all’inizio una dozzina) esprimono la loro protesta in silenzio, marciando con un fazzoletto bianco, che da allora diventerà un emblema. Alle Madres si aggiungeranno le Abuelas, le nonne, che cercano la verità anche sui nipoti. Spesso, infatti, anche i desaparecidos avevano figli. Che ne era stato di loro? Non tutti erano stati uccisi, alcuni, specie i più piccoli, erano stati considerati dai militari  orfani da adottare. A volte le donne incinte rapite venivano tenute prigioniere sino al parto per essere uccise subito dopo, e i loro figli venivano anch’essi assegnati a militari o a famiglie “per bene” (ma, purtroppo, impossibilitate a procreare), venduti, assegnati a orfanotrofi. L’essenziale era distruggere le famiglie “sovversive”.

Il traffico di bambini non passava inosservato. A volte, prigionieri liberati (per vari motivi), raccontavano quello che avevano visto, a volte venivano sequestrate ostetriche (che, evidentemente, di norma non prestavano servizio per l’esercito) per poi essere rilasciate. E queste, a volte, avvisavano le famiglie. I bambini iscritti negli asili presentavano a volte anomalie nei certificati di nascita, le madri partorivano senza aver avuto prima il pancione (o erano prive dell’utero). A volte, telefonate o lettere anonime fornivano un indizio, o forse qualche allusione durante le manifestazioni del giovedì in Plaza de Mayo. Una sola ipotesi sembrava essere in grado di spiegare tante stranezze: si trattava di adozioni illegali, e i nipoti scomparsi erano questi bambini nati in modo miracoloso. Il problema era provarlo. Non bastavano le doti investigative delle Abuelas, per questo. Occorrevano anche prove scientifiche, e un diverso tipo di investigatori.

 Prima di chiarire come si fece (lo scriveremo in un prossimo articolo sull’onere della prova), torniamo a Raúl Alfonsín. Nel frattempo erano iniziati numerosi processi contro i militari. Tra gli altri, nel 1985 Videla era stato condannato all’ergastolo.

A una serie di progressi, tra cui la Commissione nazionale (1992) e la rete nazionale per il diritto all’identità (2003), a causa di segnali minacciosi provenienti dall’esercito, si contrappose una legge che sembrava mettere la parola fine a qualsiasi nuovo processo (e anche a quelli precedenti): la Ley del Punto Final, che imponeva un termine di 60 giorni per aprire nuovi procedimenti penali, trascorsi i quali le passate violazioni non sarebbero più state perseguibili. Peggio delle prescrizioni brevi italiane, non è vero? Tuttavia, i magistrati riuscirono a rinviare a giudizio quasi quattrocento militari.

Temendo il peggio, nel 1987 Alfonsin scelse di far varare la Ley de la Obediencia Debida (obbedienza dovuta), sulla base della quale chi aveva eseguito ordini superiori era ritenuto non responsabile.

 Ne riportiamo un estratto:

«Art. 1 – Si presume senza ammettere prove in contrario, che coloro che alla data della commissione del fatto rivestivano la carica di ufficiali capo, ufficiali subalterni, sotto ufficiali e personale di truppa delle forze armate, di sicurezza, di polizia e penitenziari, non sono punibili per i delitti di cui all’art. 10, punto 1 della legge 23.049, per aver operato in virtù di «obbedienza dovuta».

La stessa presunzione sarà applicata agli ufficiali superiori che al momento non rivestivano la carica di comandante in capo, capo di zona, capo di sub zona o capo delle forze di sicurezza, di polizia o penitenziaria, se non viene giudizialmente risolto entro i 30 giorni di promulgazione di questa legge, che hanno avuto poteri decisionali o hanno partecipato all’elaborazione degli ordini.

In questi casi si considererà di diritto che le persone prima menzionate hanno agito in stato di coercizione in subordinazione all’autorità superiore ed eseguendo ordini, senza facoltà o possibilità di ispezione, opposizione o resistenza ad essi circa la loro opportunità e legittimità.

Art. 2 – La presunzione stabilita nell’articolo precedente non sarà applicabile nei casi di delitti di violazione, sottrazione ed occultamento di minori o nel caso di sostituzione dello stato civile e del sequestro di beni immobili.

Art. 3 – La presente legge verrà applicata d’ufficio. Entro i cinque (5) giorni dalla sua entrata in vigore, in tutte le cause pendenti, qualunque sia il suo stato processuale, il tribunale dinanzi al quale saranno esaminate senza ulteriori procedure emetterà, rispetto al personale compreso nell’art. 1, paragrafo 1, il provvedimento al quale fa riferimento l’art. 252 bis del Codice di Giustizia Militare, o decadrà la citazione a prestare dichiarazione, secondo il caso.

Il silenzio del tribunale durante il tempo indicato, o durante quello previsto nel secondo paragrafo dell’art. 1 produrrà gli effetti contemplati nel paragrafo precedente con il grado di cosa giudicata.

Se nella causa non fosse stato accreditato il grado o la funzione che possedeva alla data dei fatti la persona chiamata a rendere dichiarazioni, il termine di tempo trascorrerà dalla presentazione del certificato o rapporto trasmesso dall’autorità competente che lo accrediti.

Art. 4 – Senza pregiudizio da quanto disposto dalla legge 23.492, nelle cause rispetto alle quali non fosse trascorso il termine di tempo previsto dall’art. 1 della stessa, non potrò essere disposta la citazione a prestare dichiarazioni indagatrici delle persone menzionate nell’art. 1, paragrafo 1 della presente legge.

Art. 5 – Contro le decisioni riguardanti l’applicazione di questa legge, si procederà con un ricorso straordinario dinanzi alla Corte Suprema di Giustizia della Nazione, detto ricorso potrà essere inoltrato entro i cinque (5) giorni dalla sua notificazione. Se la decisione fosse tacita, il termine di tempo trascorrerà dal momento in cui si ritenesse pronunciata ai sensi di quanto disposto in questa legge.

Art. 6 – Non sarà applicabile l’art. 11 della legge 23.049 al personale compreso nell’art. 1 della presente legge»

  Se questa legge vi ricorda le dichiarazioni dei gerarchi nazisti a Norimberga (e di Eichmann a Gerusalemme), non è forse un caso, visto l’alto numero di ex nazisti che si erano fatti una nuova vita in Argentina. Dal 1987, quindi, solo poche decine di alti ufficiali erano ancora perseguibili. Favoritismo per gli ufficiali intermedi? Non sia mai! Ecco che il nuovo precedente, Carlos Menem, decise di sancire un indulto per una quarantina di ufficiali ancora sotto processo, per poi graziare i militari già condannati, tra cui lo stesso Videla.

Tutto finito, dunque. Torture, rapimenti, omicidi senza processo sarebbero rimasti per sempre impuniti. O forse no. In effetti nessuna legge aveva preso in considerazione, tra i reati oggetto di amnistia, indulto, oblio e obbedienza dovuta, il rapimento dei bambini, cioè, dei figli dei desaparecidos. Restavano dunque i processi ai rapitori. Fu così che emerse che la ESMA, la Escuela superior de mecánica de la armada, ospitava reparti di maternità clandestini nei quali venivano portate le donne incinta provenienti da tutto il paese. Si nascondevano le madri, le si uccidevano, le si faceva sparire, si falsificavano i documenti di nascita e di identità dei bambini. Di nuovo, sulla base di questi processi si arrivò ai vertici dell’esercito. Videla venne di nuovo arrestato, nel 1998, in quanto principale mandante e responsabile dei rapimenti di minori. Poi toccò agli altri membri della giunta.

Poi, una nuova svolta: nel 2000, mentre il giudice Gabriel Cavallo processava per sottrazione di minore (non vi erano altri spiragli) i poliziotti responsabili di aver ucciso una coppia e di averne rapita la figlia (Claudia Poblete), il Centro de estudios legales y sociales, un’organizzazione per i diritti umani, chiese a Cavallo di giudicare i poliziotti anche per il reato di tortura e di omicidio nei confronti dei genitori. Chiese, cioè, di riconsiderare la costituzionalità delle leyes del Punto final e dela Obediencia debida. E Cavallo non si tirò indietro. Nel 2001 dichiarò incostituzionali le due leggi (tra l’altro, perché una legge che permetteva l’incriminazione per rapimento ma non per omicidio era da ritenersi incoerente). La sentenza fu confermata in appello e in Cassazione, finché il parlamento argentino, con il nuovo presidente Nestor Kirchner, decretò l’abrogazione retroattiva delle leggi sull’impunità, nel 2005, la Corte suprema avallò la decisione e nel 2007 dichiarò nulli gli indulti di Menem. I processi ripresero contro centinaia di militari e funzionari. In pochi anni l’impunità fu totalmente cancellata

 

Riferimenti

Giovanni Miglioli, c/di, Desaparecidos. La sentenza italiana contro i militari argentini, Manifestolibri, Roma 2001.

Horacio Verbitzky, Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Fandango, Milano 2001.

Sul sistema politico argentino:

Marzia Rosti, Argentina, Il Mulino, Bologna 2011.

Sulle Madres. Sulle Abuelas.

Sulle politiche e sulle pratiche della memoria in Argentina (e non solo):

Patrizia Viola, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani, Milano 2014.

Sul processo per l’operazione Condor, che ha coinvolto persone di origine italiana: Repubblica e Stati Generali

I servizi di El pais sulla dittatura.

Una trasposizione filmica: Garage Olimpo.

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