Storia
L’antisemitismo sotto gli occhi di tutti. Una storia che ci riguarda
Sotto gli occhi di tutti (Le Monnier) di Valeria Galimi è un libro che riflette sulla legislazione antisemita in Italia negli anni tra il 1938 e il 1945, a partire da una convinzione. Questa: la storia non è qualcosa di astratto, bensì il prodotto delle scelte e dei comportamenti di moltissimi individui; nessuno può mai chiamarsene fuori, nemmeno se sceglie di non prendere posizione, pensando così di non avere responsabilità. Quei comportamenti, le molte scale di comportamento, vanno poste al vaglio dell’analisi, sostiene Galimi. Per farlo propone di ragionare per contesti, talora anche su alcune storie individuali, non perché quelle sono più esemplari di altre, ma perché in quelle storie si condensano molti elementi che messi insieme consentono di capire il funzionamento reale della società.
Per procedere su questa linea si tratta anche di avere una visione nel tempo lungo della storia e non solo del contesto specifico o dell’episodio.
Così l’oggetto di questo libro, ovvero la legislazione antisemita, pur tenendo fermo il periodo 1938-1945, poi va anche molto oltre fino al nostro oggi, proprio perché i conti con quella storia e con le conseguenze, i lasciti, i non detti, di quella storia ci riguardano, ancora, qui e ora, oggi.
Dunque una storia affrontata da più punti di vista nel tempo.
Il primo: come storia del processo legislativo, con particolare attenzione al tema degli ebrei stranieri venuti in Italia soprattutto dopo il 1933 con la sensazione che in Italia , forse, si potesse riaprire un nuovo ciclo di vita.
Il secondo: comportamento degli italiani rispetto agli ebrei negli anni dell’antisemitismo di Stato. Comportamento contorto, complicato in cui l’ostilità cresce con il crescere della propaganda, in cui si producono anche atti di solidarietà, ma in mezzo a molti altri di ostilità, dove molto sono i percorsi di aiuto diretto e indiretto (come per esempio ha ampiamente ricostruito Liliana Picciotto nel suo Salvarsi (Einaudi), in mezzo a molti altri comportamenti che si dispiegano su tutta la scala del «grigio», ma dove non mancano i delatori, e non tutti sono soccorritori, dove se è vero che gli ebrei che si salvano lo sono perché ci sono italiani che li aiutano, è anche vero che quelli che sono catturati e avviati nei treni dela morte lo sono perché altrettanti italiani li denunciano, li catturano, li cercano per avere un compenso. A conferma che quello del bravo italiano è una costruzione, un mito, avrebbe detto Furio Jesi: qualcosa che è costruito, ma anche un’immagine inventata che produce convinzione.
Il terzo: come rimozione, a lungo, almeno fino agli anni ’80, della realtà del razzismo in Italia (una realtà che non nasce con l’antisemitismo di Stato nel 1938, ma che è preceduta dalle politiche contro i sudditi dell’Impero, a partire dalla conquista dell’Etiopia, nel maggio 1936), che vive anche del linguaggio della letteratura d’appendice, quando la cultura italiana si popola di immagini, stereotipi, schemi mentali che saranno poi selezionati e amplificati dalla propaganda di regime per sostenere la campagna razzista e conferire efficacia, persuasività e immediatezza alle dottrine e alle politiche fasciste.
Il quarto: soprattutto come momento di ritorno a partire dagli anni ’90 del tema con le commissioni d’inchiesta sull’esproprio dei beni degli ebrei; l’apertura del campo degli studi storici ai temi della esclusione; la costruzione del «giorno della memoria» con tutte le sue dinamiche di adesione, ma anche di banalizzazione della storia.
Nelle righe conclusive di questo libro Valeria Galimi precisa che il volume «ha l’obiettivo di mostrare quanto sia necessario – in un contesto denso di implicazioni politiche-memoriali – continuare ad analizzare in profondità i rapporto tra società e fascismo, nonché i comportamenti e le opinioni degli italiani di fronte all’antisemitismo di Stato e ala Shoah, al fine si comprendere le specificità del caso italiano nel contesto europeo, nonché le ripercussioni e i lasciti di questi eventi nella memoria del dopoguerra e nel tempo presente»[p. 148; il corsivo è mio].
È importante sottolineare questo dato del tempo presente. Non solo e non tanto per clima politico, mentale, culturale, per certi aspetti, per il tratto antropologico in cui oggi in molti paesi d’Europa si definisce un linguaggio pubblico rispetto alle vicende del ‘900 (e quindi anche rispetto alla Shoah), ma perché a me pare che il bilancio e il resoconto della discussione pubblica che Valeria Galimi propone in questo libro si un ottimo strumento per capire dove siamo, oggi.
Lo dico a maggior ragione per il clima culturale in cui in Italia si collocano in queste settimane le iniziative in relazione all’ LXXX anniversario della legislazione razziale. Uno per tutti il caso di Trieste e delle tensioni definite intorno al progetto “Razzismo in cattedra. Il Liceo F. Petrarca di Trieste e le leggi razziali del 1938”, promosso e realizzato dalla classe 4a I – ora V- del Liceo “Francesco Petrarca” di Trieste, coordinato dalla prof. Sabrina Benussi, (classe 4a I, ora V), in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste, il Museo ebraico “Carlo e Vera Wagner” di Trieste e l’Archivio di Stato di Trieste, mai cui protagonisti primi sono soprattutto i ragazzi di quella classe. Una dimostrazione di che cosa debba intendersi oggi per «Public History»: non la divulgazione, con un linguaggio più basso dei risultati della ricerca storica più aggiornata, ma un processo di costruzione consapevole del sapere storico che parte dalle domande nel presente, cerca fonti, documenti e percorsi nel passato in dialogo col presente e per questa via fa della ricerca della ricerca storica applicata un processo di formazione civile del cittadino.
E’ questo punto che sta al «cuore» del libro di Valeria Galimi e che ne fa non solo un libro di storia, ma uno strumento molto utile per la definizione del rapporto presente/passato/presente.
Il tema è pertinente specie se consideriamo le stagioni e i cicli di riflessione pubblica su cui almeno da un trentennio il tema dell’antisemitismo in Italia è diventato tema pubblico e che a lungo ha funzionato come catalizzatore per ripensare e proporre l’analisi della natura profonda e totalitaria dell’esperienza fascista in Italia, spesso affrontata come «dittatura dolce», e dove la svolta antisemita e razzista sembra un incidente di percorso, più che una scelta coerente con la propria storia.
Ma anche questione che rinvia alle permanenze di ciò che dopo rimane nel non detto della cultura diffusa di una realtà sociale e culturale. Perché il problema del totalitarismo non è quando termina e se ritorna la democrazia, sono le permanenze culturali che lascia, destinate a ripresentarsi, anche in regini politici diversi, anche a molti anni di distanza, senza per questo dare luogo al ripristino del regime, ma a «lavorare» nei sentimenti, nel vissuto. In breve in parti non indifferenti della mentalità tanto da apparire come parti dell’identità che si rivendica e che propone parole e immagini. Contribuendo a formare convinzioni. Non in clandestinità, ma in pubblico.
Sotto gli occhi di tutti, appunto.
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