Storia
La vittoria mutilata che troppo spesso rimuoviamo
Era una mattina di novembre del 1918 il giorno in cui il mio trisavolo arrivò a Torino su un treno-ospedale, per essere ricoverato nel sanatorio di Orbassano. Diagnosi: tubercolosi polmonare contratta al fronte, a causa della vicinanza a compagni già infettati, e aggravatasi con il passare del tempo. Dopo poco il mio trisavolo passò a miglior vita, lasciando un’esistenza vissuta nell’ultimo parte tra fucili, trincee e rombi di artiglieria e sicuramente priva di quelle caratteristiche necessarie ad essere davvero “umanità”.
Eppure quello che accadde al mio antenato non fu un caso isolato. Alla lunga lista di vittime che il primo conflitto mondiale ha inflitto all’Italia, 651.000 militari e 589.000 civili, vanno aggiunti il milione di soldati che tornarono a casa “letteralmente a pezzi”, con ferite così gravi da lasciarli mutilati per il resto della loro vita. Del grande esercito (che poi così grande non era visto che i suoi generali utilizzavano ancora tecniche di battaglia tipicamente ottocentesche) che valicò il Piave con tanto ardore il 24 maggio del 1915, rimase una quantità di reduci con la morte negli occhi, tanto da far capire al mondo quanto l’inutile strage denunciata da Papa Benedetto XV fosse davvero tanto una strage quanto inutile. Ed ecco il primo tassello di quella che successivamente fu definita la “vittoria mutilata”. L’immensa quantità di perdite e di reduci feriti lasciava intendere che la vittoria del conflitto non fosse servita assolutamente a nulla, se non a ingrassare le tasche dei capitalisti che speculavano sul commercio delle armi, come Lenin sostenne nelle sue opere.
Nonostante tutto abbiamo vinto. Le truppe italiane entrarono a Trieste e Trento, l’antico nemico asburgico firmò l’armistizio di Villa Giusti, Diaz venne accolto con tutti gli onori e il 4 novembre rimase in saecula saeculorum a testimoniare l’immensa impresa delle forze armate (militarmente parlando una vera impresa, vista la scarsa preparazione del nostro esercito) e a sancire di fatto il termine di quel ciclo di tensioni con l’Austria iniziato con Carlo Alberto e la sua Prima Guerra di Indipendenza e ormai del tutto finito, in quanto il vicino d’oltralpe venne declassato da grande impero a piccolo staterello di montagna.
Abbiamo vinto, già. Peccato che di tutto quello che Francia e Inghilterra avevano promesso a Salandra e Sonnino (rispettivamente Primo Ministro e Ministro degli Esteri nel 1915) al momento della firma del Patto di Londra non vi era traccia concreta. Geopoliticamente parlando la partita si era chiusa con un pareggio: sì a Trento e Trieste, no alla città di Fiume, insomma un risultato insoddisfacente per un alleato che aveva tenuto a bada sui monti del Carso il nemico austriaco e il compare germanico mentre Francia, Inghilterra e Russia (prima che si riscoprisse bolscevica) provavano ad affondare il colpo sui loro fronti. Ecco il secondo tassello della vittoria mutilata. Non bastavano i morti e i feriti ad affossare il morale italiano, ci voleva anche la beffa geopolitica. Le reazioni ovviamente non tardarono a mancare e la vittoria mutilata fu uno dei motivi principali che portò ai grandi movimenti di massa del biennio rosso, alla crisi dello stato liberale e all’ascesa del fascismo, aprendo di fatto la pagina più nera (in tutti i sensi) della storia italiana.
Quale insegnamento quindi rimane a noi posteri, che oltre allo sfacelo della Grande Guerra ne abbiamo conosciuta anche una successiva e decisamente peggiore? È necessaria solo una parola: ricordare. Tutti gli anni, quando celebriamo il 4 novembre e la festa delle nostre Forze Armate, abbiamo l’obbligo morale di non dimenticare il sacrificio dei nostri soldati e dei nostri civili sulle montagne del Carso, del Trentino e nella pianura veneta e abbiamo l’obbligo umano di imprimerci nella mente che la guerra è davvero un’inutile strage e che i governi e la società civile debbano far di tutto per impedirla. Sempre.
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