Storia
La vita e, soprattutto, la morte di Eva Izsák
“Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”. Così Jonathan LIttell fa dire a Max Aue, nelle prime pagine de Le benevole.
Ci sono storie che è difficile raccontare. La storia di Eva Izsák, della sua vita, ma soprattutto delle circostanze della sua morte è esemplare per questo. Una vicenda di cui sappiamo qualcosa attraverso tre fonti diverse: una memoria manoscritta di Mária, sua sorella, venti fogli ingialliti, che il tempo ha consumato; le parole di Imre Toth, il filosofo che possiede quei fogli e che nel 2006, sessanta anni dopo i fatti, racconta una storia a Januaria Piromallo, che incastra molti elementi di un mosaico complicato e che (con grande qualità di scrittura) prova a ricomporre quei tasselli e a dare alla storia di Eva un profilo. Soprattutto a restituirla alla storia. tema centrale: la struttura mentale del sistema inquisitoriale. Fin qui si potrebbe dire una storia come tante. Il problema però è, che la macchina del sistema coercitivo che porta Eva alla morte in nome dell’idea, del sacrificio di sé non avviene in sistema in cui la vittima e il suo carnefice sono parte del potere. Avviene in tempo di guerra, il gruppo di cui stiamo parlando è composto esclusivamente da ebrei resistenti all’occupante nazista e il problema è come dimostrare la fedeltà.
Il sacrificio di Eva Izsák (Chiarelettere) è un testo in cui la prima difficoltà sta nel racconto di chi vuole che una storia torni alla luce.
All’inizio la storia di Eva è quella di una ragazzina ebrea che scopre il mondo politico del sionismo socialista. La sua storia è quella di una scelta militante nel mondo ebraico sionista e socialista, nell’Ungheria tra 1940 e 1944. Poi la scelta della clandestinità e della resistenza con tutto ciò che quella scelta si porta dietro. La morte ovviamente è nel conto.
Ma quella di Eva è una morte diversa. A decidere della sua morte non sono i suoi avversari, sono i membri del suo gruppo. La sua morte è decretata all’interno del gruppo ebraico di cui fa parte, messa ai voti, decisa, eseguita in nome della compattezza del gruppo, secondo una logica del sospetto che include, la partecipazione volontaria della vittima al sacrificio.
Una morte che assomiglia molto al copione dei grandi processi moscoviti della seconda metà degli anni ’30: al centro anche lì un meccanismo di potere espresso dal capo del gruppo Imre Lipsitz, più noto come il nome di Imre Lakatos, allora ventiduenne e poi grande filosofo. Non c’è nessun potere da conquistare, o da difendere, c’è un meccanismo che serve a ribadire la gerarchia, – a differenza di ciò che accadeva a Mosca negli anni ’30 e che molte altre volte sarebbe accaduto nei vari paesi dell’Est Europa, Ungheria inclusa,
Quella che Januaria Piromallo racconta non è solo la morte, ma è la costruzione del “grande processo” dove il meccanismo del potere è funzionale alla auto considerazione del capogruppo. Una storia che è illuminante, da molti punti di vista, soprattutto per quello che riguarda i meccanismi di oppressione, di possesso della vita degli altri, prima di tutto dei propri, anche da parte di chi, in quella congiuntura, sa che ha poche chance di vita. Il meccanismo del potere di decidere della vita, e soprattutto della morte, il desiderio di esercitarlo, la soddisfazione di governare le vite degli altri, non hanno risparmiato nessuno. Di tutte questa è la parte del libro più inquietante, ma anche più significativa. Anche per questo, di questo libro sembra che nessuno voglia parlare. Forse perché sul fondo riecheggiano le parole di Max Aue. Con quelle è molto difficile fare i conti.
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