Calcio
La svastica a Londra, o della (impossibile) separazione fra sport e politica
Fu negli anni ’30 del secolo scorso che i governi si accorsero delle implicazioni politiche e sociali del calcio. A ben guardare, più che una folgorazione, fu un ritorno di fiamma. Già nel Medioevo, i sovrani inglesi se ne erano occupati, per metterlo al bando o per disciplinarne strettamente la pratica. Nel 1618, con la Declaration of Sports, Giacomo I intervenne per dirimere il contrasto fra la nobiltà e i puritani, fra i sostenitori del “time to play” e i devoti del “time to pray”, stabilendo quali sport si potevano praticare e quali no, al contempo rammaricandosi delle sue stesse proibizioni, che attentavano alla sana abitudine del volgo di dedicarsi agli esercizi fisici così naturalmente propedeutici all’arte di far la guerra.
Nel Novecento, i regimi totalitari scoprirono che il calcio e lo sport in generale celavano inesauribili giacimenti di senso, di passione e di manipolazione. Benito Mussolini si adoperò non poco perché Roma organizzasse la seconda Coppa Rimet nel 1934 e poi esercitò le dovute pressioni affinché l’Italia ne uscisse vincitrice. Adolf Hitler, che secondo le più accreditate ricostruzioni assistette in vita sua a una sola partita (quella persa dalla Germania contro la Norvegia ai Giochi di Berlino del 1936), aveva scritto nel Mein Kampf un passo più che illuminante: «Date alla nazione tedesca sei milioni di corpi perfettamente addestrati nello sport […] e se necessario in meno di due anni uno Stato ne farà un esercito».
Sia il duce che il Führer erano nati troppo presto per poter apprezzare pienamente il calcio, ma erano moderni abbastanza da vederne le infinite possibilità di impiego a fini di propaganda e di cemento nazionalistico. Per un paese come la Germania, cui il Trattato di Versailles aveva imposto di abolire il servizio militare, lo sport era uno strumento irrinunciabile per preparare i soldati della futura Wehrmacht. Non a caso, una volta saliti al potere nel gennaio 1933, i nazisti aumentarono le ore di attività motoria nelle scuole e affidarono al calcio il compito di rassicurare il mondo circa le loro buone intenzioni: rispetto agli anni della Repubblica di Weimar, la Germania disputò il doppio delle partite internazionali fino al 1942, benché dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale fosse diventato comprensibilmente assai arduo trovare avversari.
Una delle sfide più controverse fu disputata il 4 dicembre 1935 a Londra, allo stadio di White Hart Lane, la casa del Tottenham Hotspur. La Football Association (FA) aveva organizzato la gara contro i tedeschi per incrementare le occasioni di confronto con nazionali diverse da quelle britanniche, che all’epoca costituivano le rivali ricorrenti dell’Inghilterra. Nel novembre 1934, i bianchi d’Albione, che risaputamente snobbavano i Mondiali per un incrollabile complesso di superiorità, avevano ospitato l’Italia campione del mondo. Ne era scaturito un match così aspro da passare alla storia come la “Battaglia di Highbury”, cui tuttavia gli inglesi avevano annesso un significato esclusivamente tecnico. Con la selezione germanica, i risvolti politici erano invece destinati a occupare tutta la scena.
Per quanto possa sembrare strano, la FA non pensò di interpellare il governo circa l’opportunità di giocare a pallone contro i rappresentanti del nazismo, né – va detto – il governo si aspettava di essere consultato: per il Foreign Office, lo sport era lo sport e la politica tutta un’altra cosa e non c’era ragione, o urgenza, perché venissero mescolati. Con i nazisti, però, non si poteva proseguire come se nulla fosse. Proprio nel 1935, la Germania aveva ricostituito l’aviazione militare, aveva denunciato la pace di Versailles e avviato il riarmo in grande stile. In settembre, le Leggi di Norimberga avevano disvelato il carattere violentemente razzista e antisemita del regime hitleriano. La prospettata amichevole sollevò l’indignazione della comunità ebraica inglese e alcuni organi di stampa si fecero interpreti dello sdegno popolare.
Diversi funzionari del Ministero degli Esteri nutrivano forti sospetti nei confronti dei nazisti, ma erano ugualmente restii, per formazione e indole, a impiegare lo sport come mezzo di azione diplomatica e politica. L’idea che sport e politica appartenessero ad ambiti da tenere rigorosamente distinti era specialmente diffusa fra le classi medio-alte. Sul Times, ci si domandava retoricamente per quale motivo i calciatori tedeschi dovessero essere trattati diversamente dai musicisti della Filarmonica di Berlino, che erano stati caldamente festeggiati durante la loro recente tournée nell’isola. Per giunta, la politica estera della Gran Bretagna oscillava allora fra due poli: da una parte, l’adesione allo spirito multilaterale del Patto di Locarno, che mirava a restituire alla Germania il rango di grande potenza sotto la condizione dell’immutabilità degli assetti territoriali fissati dalla pace del 1919, e dall’altra la tentazione di addivenire a pattuizioni bilaterali con Berlino (come gli accordi navali del giugno 1935), che inevitabilmente generavano malumori in Francia. Come noto, quando Neville Chamberlain divenne Primo ministro nel 1937, questa prassi di contenimento e concessioni sarebbe confluita nella politica dell’appeasement, ossia nella ricerca a ogni costo di vie di pacificazione e distensione nelle relazioni con Hitler.
Quando il leader sindacale Walter Citrine chiese apertamente di annullare la partita, lo sport fu inserito per la prima volta all’ordine del giorno dei lavori ministeriali. Il governo doveva fronteggiare due opposti pericoli per l’ordine pubblico: le manifestazioni popolari di protesta annunciate dalla sinistra e la prospettata marcia di migliaia di tifosi tedeschi verso lo stadio del Tottenham, che accidentalmente riscuoteva pure i favori della minoranza ebraica che abitava la zona East End di Londra. I giornali liberali e conservatori erano tuttavia contrari all’interferenza governativa nelle vicende sportive e ancora il Times scrisse che cancellare la partita avrebbe ripugnato allo spirito inglese.
Quanto alla platea dei tifosi, la querelle fece emergere le pulsioni antisemite che albergavano nella pancia dell’opinione pubblica britannica. Sul Tottenham Weekly Herald fu scritto che la quantità di tifosi ebrei degli Spurs non doveva essere esagerata; diversi lettori inviarono messaggi per chiedere che il calcio non restasse ostaggio delle campagne di odio degli ebrei, che rischiavano di causare un’altra guerra contro la Germania; altri ricordarono agli ebrei che erano meri ospiti in Gran Bretagna e altri ancora li incitarono ad andarsene e a non tornare.
Chi invece stava arrivando erano gli oltre 10.000 tifosi tedeschi, che le autorità naziste avevano tratto dalle file dell’associazione Kraft durch Freude, l’organizzazione ricreativa dei lavoratori tedeschi controllata dal governo. Hitler fu ben contento di finanziare la spedizione, benché si trattasse in effetti di spedire una massa di persone ad assistere a una probabilissima sconfitta della Deutsche Mannschaft. L’obiettivo era quello di mostrare agli inglesi e al mondo che il nazismo aveva instaurato una benevola dittatura, che il Terzo Reich non avrebbe insidiato l’armonia fra i popoli e che la nuova Germania meritava la fiducia del consesso delle nazioni, soprattutto in vista del duplice appuntamento olimpico dell’anno successivo, quando i Giochi invernali si sarebbero tenuti a Garmisch-Partenkirchen e quelli estivi, come già ricordato, nella capitale tedesca. Londra fu perciò rassicurata che i fortunati prescelti per la trasferta avrebbero indossato sobrie uniformi e soprattutto si sarebbero astenuti dallo sfoggiare le onnipresenti, e già sinistre, svastiche. Nel marzo 1935, un sondaggio demoscopico negli Stati Uniti aveva mostrato che il 43% della popolazione era favorevole a disertare le Olimpiadi tedesche e di fronte al pericolo che il fronte del boicottaggio si allargasse, le poche concessioni scenografiche in vista della partita di Londra erano un sacrificio che i nazisti compivano volentieri.
Quando la flotta di navi approdò a Southampton e scaricò la massa di tifosi tedeschi, gli inglesi li accolsero con entusiasmo e simpatia. Un incontro di calcio fu improvvisato fra l’equipaggio della Columbus e i marinai del luogo, che si imposero per 3-2. Sulla via verso Londra, le manifestazioni di fratellanza si moltiplicarono. Al memoriale di guerra di Whitehall, fu deposta una corona di fiori su cui si poteva leggere: «Alla memoria dei morti britannici, da parte di 1.500 tifosi tedeschi arrivati per vedere la partita a White Hart Lane». Il capitano tedesco Fritz Szepan, che i giornali britannici avevano ribattezzato “Greta” per i fluenti capelli biondi, con palese riferimento alla celebre attrice Garbo, lodò la supremazia sportiva inglese e ringraziò per la calorosa accoglienza riservata alla sua squadra. Le misure di sicurezza furono imponenti: Leicester Square fu chiusa alla circolazione e vi si concentrarono i pullman dei tifosi in visita, che furono portati in giro da autisti doverosamente istruiti a evitare le aree a insediamento ebraico e coadiuvati da circa ottocento guide turistiche – fra cui vi erano molti rifugiati tedeschi di origine ebrea, ansiosi di guadagnare qualche soldo -, nonché scortati da macchine della polizia dotate di altoparlanti che diffondevano istruzioni in lingua.
I dintorni dello stadio e il campo da gioco erano di fatto militarizzati. Dalla stazione a White Hart Lane, la polizia sequestrò o distrusse migliaia di volantini preparati e distribuiti dai movimenti anti-nazisti, che proclamavano “Tieni lo sport pulito, combatti il fascismo”, oppure “Hitler colpisce sotto la cintura”, o ancora “Il nostro gol è la pace, quello di Hitler la guerra” e pure “Libertà per Ernst Thälmann”, il leader del Partito comunista tedesco, in prigione dal 1933, che sarebbe stato ucciso nel lager di Buchenwald il 18 agosto 1944. Dal canto loro, i simpatizzanti del partito di estrema destra British Union of Fascists di Oswald Mosley, avevano tappezzato le mura dello stadio con lo slogan “Morte agli ebrei!”.
All’ingresso delle due squadre in campo, gli spalti erano gremiti. Oltre 54.000 spettatori avevano trovato posto sulle tribune e moltissimi erano rimasti fuori dai cancelli. All’esecuzione degli inni nazionali, la squadra tedesca irrigidì il braccio destro nel già tipico saluto nazista e migliaia di fan in ogni settore dello stadio risposero col medesimo gesto. Mentre risuonavano le note di “God save the King” e la bandiera con la svastica garriva al vento, Ernie Wooley, un calzolaio di Shoreditch e tifoso degli Spurs, pensò che fosse troppo: incoraggiato da una manciata di connazionali, si arrampicò sulle gradinate, raggiunse l’asta che sosteneva il vessillo nazista e con un coltello recise la corda che lo sorreggeva. Mentre la bandiera veniva in tutta fretta issata di nuovo, Wooley fu prontamente tratto in arresto: sarebbe stato processato per direttissima, anche se in seguito le accuse a suo carico furono lasciate cadere.
La partita si risolse in un lungo monologo dei padroni di casa, pur penalizzati da una cattiva prestazione dei propri avanti. Finì 3-0, nonostante la tattica ultra-difensiva dei tedeschi, che mirarono soprattutto a non essere soverchiati. Ciò che più colpì gli osservatori fu il clima di estrema cavalleria che contraddistinse la contesa, la profusione di strette di mano durante la gara e l’atmosfera di amicizia al fischio finale, quando i giocatori uscirono dal campo a braccetto gli uni con gli altri, mentre i tifosi tedeschi – che avevano l’ordine di lasciare il paese prima del tramonto – furono acclamati dalla folla di casa: mai partita fu più corretta, scrisse il Daily Express. L’Observer addirittura riportò che il match aveva assunto le caratteristiche di una cerimonia rituale così priva di animosità da rasentare l’insignificanza.
Alla cena protocollare presso il Victoria Hotel, il presidente della FA Sir Charles Clegg stigmatizzò il comportamento del sindacato, che aveva inteso politicizzare un evento sportivo, e raccolse i complimenti della delegazione tedesca, grata per essersi confrontata con gli inventori del gioco: i calici furono quindi levati in alto, per brindare a Giorgio V e a Adolf Hitler.
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