Storia

La storia per davvero. L’Italia repubblicana e i conti sospesi con il fascismo

2 Giugno 2023

 

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Ma perché siamo ancora fascisti? si chiede Francesco Filippi. E si risponde: perché abbiamo fatto finta, a lungo.

Abbiamo fatto finta di risolvere il problema del fascismo con una epurazione mai davvero avviata. Abbiamo fatto finta risolvendo tutto in uno scarico delle responsabilità italiane durante la guerra.

Perché abbiamo fatto, alla fine un grande elogio della zona grigia.
Un tema questo della “zona grigia” su cui con precisione Claudio Pavone aveva scritto alcune pagine molto significative nel 1998 su cui con grande intelligenza e finezza era tornata a riflettere, alcuni anni fa, Anna Bravo. Ma un tema spesso evocato tra imbarazzo manifesto e una sottotraccia di orgoglio. Ecco in questa doppia cifra, probabilmente, sta uno dei motivi del libro di Francesco Filippi.

Un tema su cui Francesco Filippi non arriva per primo, ma che ciclicamente ritorna nella discussione pubblica italiana (e anche questa ciclicità forse dovrebbe essere un tema da discutere, ma già si fa così fatica a discutere del tema continuità/discontinuità che anche sollevare la questione dei cicli di discussione che periodicamente tornano a rivisitare luoghi e temi forse è chiedere troppo) ,ogni volta suscitando le stesse reazioni: ovvero un’alzata di spalle, comunque un gesti di scarsa sopportazione. Nel complesso la sensazione di un rinnovato fastidio.

Tema non nuovo abbiamo detto: Tema che per la prima volta è stato proposto da Leo Valiani e Ferruccio Parri nel 1955; poi riproposto da Claudio Pavone nel 1973 e ora di nuovo da Francesco Filippi.

Quella di Filippi tuttavia più che un’analisi del momento del passaggio tra Liberazione e avvio della prima legislatura repubblicana (quale in fondo è lo scavo sia di Parri, che di Valiani, che di Pavone), si configura come l’analisi di un percorso lungo nel tempo che prova a fare i conti con tutta la parabola della storia dell’Italia repubblicana utilizzando molti registri: Il discorso pubblico, il cinema, la rappresentazione, la memoria, la scuola, tanto per considerarne alcuni.

Filippi ha la pazienza di ricostruire e seguire molti filoni, ma ha soprattutto la chiarezza di porre alcune questioni centrali. Essenzialmente due. Che delinea nelle prime pagine del volume.

La prima: in Italia “per le ragioni più varie non si è riusciti a liquidare il proprio rapporto con il fascismo alla fine della guerra. Atteggiamenti pubblici, assunzioni di responsabilità, operazioni di epurazione, leggi”. [pp. 10-11]

La seconda riguarda che tipo di storia del fascismo ci siamo raccontati in questa settanta anni, dando luogo a una mentalità “che, sopra a uno sforzo pubblico e storiografico di costruzione valoriale, si cuce addosso un comodo abito fatto di innocenza e irresponsabilità nei confronti di un passato che non si vuole più sentire come proprio” [p.11] per concludere, lapidario ma efficace: “Una Storia di cui non si vuole avere Memoria”.

A cominciare dagli stessi fascisti durante il periodo 1943-1945, quando, precisa Filippi perfino a Salò il regime fascista era guardato con imbarazzo. Perché Salò l’idea che il fascismo ci riprova per riprovarci deve riprendersi una ‘autonomia rispetto alla sua storia di regime. Per questo rivendica e fa sua la storia del fascismo movimento, ma evita di sovrapporsi al ventennio. “, il “Ventennio” per antonomasia della storia d’Italia scrive Filippi – rimane orfano nella memoria pubblica.”. [p.27]

Dunque, come si entra nel dopoguerra? Prima di tutto con un’epurazione mancata. Ma non solo. La partita che si apre finita la guerra è un processo in cui è centrale una epurazione mancata, ma anche di un l’inesistenza o il non luogo a procedere di esercizio pubblico di “resa dei conti” che in Italia ha voluto dire che non ha mai avuto luogo una scena paragonabile a una “Norimberga 1945”, ma anche un’analisi pubblica del proprio passato che evita da subito col misurarsi con le proprie responsabilità (per esempio è esemplare il caso del Generale Roatta [per chi fosse interessato può ripercorrere la questione rileggendo l’ultimo capitolo di Gli uomini di Mussolini (Einaudi) di Davide Conti]

In questa parte dove Filippi ripercorre il passaggio tra Liberazione e Repubblica con chiarezza si racconta un’altra storia dell’Italia del dopoguerra, che pochi hanno piacere di dire in pubblico “a voce alta” in cui  i protagonisti sono  generali, prefetti, questori, uomini dei Servizi segreti, personaggi di alto rango della burocrazia dello Stato, criminali di guerra, secondo le norme del Diritto internazionale e le richieste di estradizione dei Paesi dove avevano, durante la guerra, commesso orrendi crimini. Ma uomini che, dopo la Liberazione, sono reintegrati nei loro posti di responsabilità dove hanno avanzamenti di carriera, dove furono decorati, celebrati e seguitando impavidi a tramare (molti di loro li ritroveremo protagonisti nell’Italia degli anni della strategia della tensione).

Per concludere su questo punto Filippi è tanto efficace quanto è lapidario:

“Lo Stato democratico si dimostra, nei fatti, incapace di processare equamente il proprio passato.” [p.52]

Probabilmente è un quadro e una valutazione secca e tuttavia ha un fondamento. Il tema ha il suo punto essenziale nel punto spartiacque nel decisivo passaggio tra dittatura e democrazia, per chiudere i conti con il ventennio mussoliniano e punire gli artefici della dittatura, rappresentato dall’amnistia Togliatti.

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Emanata il 22 giugno 1946 per celebrare la nascita della Repubblica italiana, il decreto di amnistia  prende il nome dal segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, che la firmò quale ministro della Giustizia del governo De Gasperi. Ispirata all’esigenza di pacificazione, si è però trasformata – per l’interpretazione estensiva fornita della magistratura – in un generalizzato perdono, applicato anche a torturatori e ad assassini. Piero Calamandrei definì l’amnistia un clamoroso errore della nuova classe dirigente italiana, gravido di conseguenze. Il mancato accertamento giudiziario dei crimini fascisti ha infatti determinato un enorme vuoto di conoscenze sulle dinamiche repressive del regime e della Repubblica sociale italiana.

E tuttavia, per quanto apparentemente riconciliativo, il giudizio di Filippi è nettamente intransigente, quantunque sia efficace perché fa forza non sulla mancata punizione, ma sulla volontà di soprassedere (ecco qua il segnale profondo di quella coabitazione tra “imbarazzo” e “orgoglio”). Per cui, ancora riferendosi agli effetti dell’amnistia Togliatti scrive:

“Nel concreto però, è lecito pensare che il sentimento più diffuso all’epoca tra la maggioranza della popolazione italiana sia quello di una volontà di chiudere il più possibile velocemente un capitolo della storia del paese di difficile valutazione, anche a costo di creare una fase di sostanziale “ingiustizia morale” nei confronti delle vittime. In questo, il provvedimento risulta in realtà all’altezza del compito.” [pp.52-53]

Che vuol dire che la politica coglie una volontà diffusa e dunque in quel momento cessa di proporsi come luogo della riforma politica per divenire l’esecutore di un sentimento diffuso. Il che indica un nuovo fattore di analisi, appunto rappresentato dal dialogo tra costruzione di una volontà di pacificazione nell’opinione pubblica come offerta da parte della politica, ma anche un percorso eguale e contrario dalla società civile verso la politica attraverso le modalità con cui si costruisce il discorso pubblico.

Quo dunque sono essenziali non più i partiti, ma i vettori di costruzione dell’opinione pubblica, ovvero le strutture di organizzazione della società civile.

A quei vettori dunque Filippi dedica particolare attenzione nel corpo strutturale del libro.

È il tema della continuità nelle strutture giudiziarie, nelle strutture di polizia, nell’esercito, nel corpo della scuola. Si dirà: sono cose note. Verissimo. Ma ripassare ogni tanto serve. Soprattutto serve per non raccontarsi la storia che non c’è, ma per confrontarsi senza veli con quella che c’è stata per davvero.

In questa storia “per davvero” non c’è solo ciò che non si fa. C’è anche ciò che si fa. Per esempio: la lunga storia non tanto della legge Scelba (1952), relativa alle sanzioni per la ricostruzione del partito fascista. [p.90 e sgg.] Filippi ne ricorda l’iter di avvio ma soprattutto le molte volte in cui la giustizia si è misurata col problema, come ha risposto, come si sia prodotta una progressiva restrizione della sua applicabilità, ma, soprattutto, della sua applicazione, per poi tornare a riconsiderarla, quaranta anni dopo, con il decreto Mancino (26 aprile 1993), di fronte alla manifestazione di un nuovo linguaggio d’odio razzista che inizia a circolare in Italia (come in molti altri contesti di democrazia compiuta in Europa)  “che non solo prevede un significativo inasprimento delle pene per chi commette reati d’odio a sfondo razziale, etnico o religioso, ma configura anche, all’articolo 3, il reato di appartenenza o partecipazione ad associazioni che incitano all’odio o alla violenza”.  Discorso ancora aperto in Italia a fronte della proposta di legge Fiano (2015) in cui si chiede di aggiungere all’art. 293 del Codice Penale il seguente comma:

“Chiunque  propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. La pena di cui al primo comma è aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici”.

Il testo, approvato dalla Camera il 12 settembre 2017. Al momento è in attesa di calendarizzazione per proseguire il proprio iter di approvazione. Sarebbe interessante (per avere un dato del paese reale) andare a Predappio e capire se si possa produrre una economia alternativa.  Senza una proposta, che consenta a un indotto di nutrirsi di “economia della nostalgia” e una “liturgia del rimpianto”, finirà come molte altre volte in Italia. “Fatta la legge, trovato l’inganno” con il risultato che forse, ammesso che la sensibilità democratica non cambi, ci troveremo a pensare un nuovo decreto che limiti le manifestazioni di entusiasmo per il passato.

Il che ripropone il secondo corno del problema su cui a lungo lavora Filippi in questo suo libro [pp. 105-160] ovvero come il fascismo sia tema di discussione culturale, come si crei una competenza didattica (ovvero come entri come parte dei programmi scolastici, di storia prima di tutto, anche se non solo d storia).Un lungo percorso che trova il primo momento di impegno pubblico solo a partire dagli anni ’60, in cui un peso determinante lo ha il linguaggio dei movimenti tra anni’60 e anni ’70, e che anche per questo – e proprio in conseguenza di un’assenza di lessico democratico che non si crea in Italia nei primi venti anni di ordine repubblicano, entra in crisi con la parabola discendente della stagione dei movimenti.

Ma anche percorso che non riesce a costruire una storia dell’Italia repubblicana, e che fa del fascismo il centro della narrazione pubblica, degli approfondimenti televisivi, della narrazione popolare.

Si consideri un dato: l’offerta in edicola di storia a fascicoli o dei supplementi, di storia a fumetti, di memorialistica, è decisamente a favore del fascismo e della guerra 1940-1943. Qualsiasi altro momento della storia dell’Italia moderno-contemporanea è decisamente meno frequentato. Che cosa resta nella memoria pubblica di tutto questo? È così sorprendente che non ci sia una memoria pubblica della democrazia politica? O forse proprio perché la democrazia politica non è generativa di mito, avrebbe detto Furio Jesi, è destinata a rimanere debole, a non proporre e produrre e una base solida culturale di consapevolezza e di senso comune?

A lungo nella parte finale di questo libro questa è la domanda di sottotraccia che fa scavare a Filippi nella produzione televisiva e nella produzione documentaristica e cinematografica degli ultimi trenta anni, in breve del periodo della cosiddetta Seconda Repubblica.

Abbiamo velocemente liquidato la Prima Repubblica come repubblica dei partiti, ma al suo posto siamo stati in grado di costruire una partecipazione diffusa delle forme democratiche dell’associazionismo e della società civile, o dietro allo slogan dell’associazionismo dal basso, della partecipazione contro la partitocrazia ciò che riemerge è ancora una volta una diffidenza di fondo verso la politica? E quella diffidenza o quella condizione, che non ho difficoltà a riconoscere anche nella delusione, è forse uno dei motivi per cui a 75 anni dalla Liberazione e dalla nascita della Repubblica non abbiamo prodotto dei luoghi di memoria della democrazia politica, ma questa si definisce ancora in gran parte come risposta ai luoghi di memoria della dittatura. Ovvero, direbbe Arendt, perché oltre l’istanza della liberazione che è eliminazione e sconfitta della dittatura e dell’oppressione non abbiamo dei luoghi di libertà, ovvero dei segni della nuova convivenza democratica?

Provo a dirla in cifra secca: perché tutti sanno dov’è la tomba di Mussolini e nessuno, se non un grumo di persone, molto ristretto, sa dov’è sepolto Giacomo Matteotti? Ovvero, senza messi termini: perché Fratta Polesine non è mai diventato un luogo di memoria?  E, soprattutto, perché di Matteotti nessuno ricorda le battaglie culturali e politiche per l’emancipazione dei contadini, per un equo fisco, ed è rimasta solo la memoria del grido, pacato e fermo, del suo ultimo discorso parlamentare, come se tutta la sua vita politica si riassumesse solo in quel momento, peraltro a guardarlo senza mito, di estrema solitudine?

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(prima pubblicazione: 2 giugno 2020)

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