Storia

La storia non sta bene, e noi con lei

15 Settembre 2024

La storia si scrive sempre più attraverso la soggettività dell’autore. Significa che il processo di scavo ritiene che tanto l’ambito di indagine – rivelare o far emergere l’interiorità di chi la fa, si incontra con uno scavo identico anche da parte di chi la scrive. L’effetto è una scrittura storica – meglio una ricostruzione della scena – che non produce più storia nel senso convenzionale del termine, ma neppure autobiografia. Emerge una narrazione in cui i confini tra romanzo e storia si assottigliano, in cui ciò che risalta è la prima persona.

Era la premessa da cui muoveva le sue considerazioni nel 2022 Enzo Traverso con il suo  Tirannide dell’io. Francesco Benigno con  il suo La storia al tempo dell’oggi, persegue un percorso diverso, ma la conclusione non mi sembra distante eccetto forse su un punto essenziale: ovvero per Benigno la narrazione della storia da parte dui chi si presenta sul mercato delle idee o chiede che la tutela della sua storia edel suo «particulare» venga presa in carica,  è volta all’esaltazione dell’autobiografia, anzi alla richiesta che solo la propria storia sia degna di essere considerata storia.

Ne discende un aspetto essenziale su cui B3bigno insiste soprattutto in un capitolo dal titolo “L’identità” [pp. 143-155] che credo condensi molte delle questioni che Benigno pone.

Provo a riassumerlo.

Sostiene Benigno che a lungo la discussione storiografica e discutere di storia si definiva in relazione alla trinità positivistica razza/ambiente/momento. La prevalenza di un impianto soggettivistico identitario, ha sostituito questa trinità con una nuova: nazione/etnia/genere.

Una nuova trinità che si esprime non solo nelle categorie, ma anche negli attori deleganti a parlarne. Scompaiono gli storici come competenze, e compaiono gli appartenenti ai gruppi di cui si parla come unici competenti legittimati a parlare del tema

È la struttura argomentativa del «politicamente corretto» che legittima chi è delegato a parlare, ma anche è la questione del fondamentalismo di fondo che caratterizzerebbe i cantori della cancel culture. Una riflessione che Benigno conclude così riferendosi agli atti di distruzione di statue negli Stati uniti nel maggio 2020, all’indomani della morte di George Floyd:

“Ci si potrebbe chiedere se fra la rimozione di varie statue di Abraham Lincoln o di George Washington e la disintegrazione di quelle dei Buddha di Bamiyan, compiuta dai talebani in Afghanistan nel 2001, vi siano, oltre a molte differenze, anche qualche somiglianza” [p. 153].

Credo che la domanda sia legittima.

Il tema, insiste Benigno, tuttavia non riguarda solo chi si crede legittimato a parlare. In un qualche modo gli statiti stessi di un disciplina, o meglio la sua finzione pubblica.

Lo studio del passato, la ricostruzione della cena del passato non è solo un atto estetico, non riguarda come «rimettere a posto» le cose che non tornano, o ha come fine un’equa distribuzione della parola anche a coloro che spesso la storia più che farla, l’hanno subita. Riguarda e nasce dalla preoccupazione di darsi un futuro, di favorire una piega di futuro.

Sorge allora la questione se l’attuale crisi del racconto storico, o il suo ripiegamento su una preoccupazione tutta riferita all’Io non sia anche la spia di una condizione più profonda: ovvero la scomparsa di un futuro. Di qualsiasi futuro.

Ragion per cui tutto quell’accanimento sul passato ha il sapore di riprendersi il passato proprio perché non si intravede un futuro possibile.

Ma anche, perché nel frattempo il racconto della storia è diventato più complicato. Deve tener conto non solo della ricostruzione dei fatti, ma anche connetterli in relazione a come avvengono decisioni, atteggiamenti, che propongono una verità mai definitiva, ma sempre ridiscussa. Una verità cipolla la chiama Benigno [p. 96] che contemporaneamente se non educa alla complessità risolve tutto con la scorciatoia del complotto e della controverità. Con il risultato che il racconto di storia o diventa la storia controfattuale o ritorna ad essere un testo di verità di regime. Ciò non ricostituisce due regimi narrativi distinti tra chi che è potere e chi è suddito, tra governo e governati

Alle volte le due parti si sovrappongono e coabitano nelle stanze del potere. Il tema è sempre la verità o i percorsi per avvicinarsi alla verità. È quello che è stato coniato nel 2017 all’avvio dell’amministrazione Trump come Alternative facts.

Hannah Arendt ne sapeva qualcosa, e ci aveva messo in guardia molti anni fa.

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