Storia

La storia dello sport a scuola

24 Luglio 2023

Chi segue lo sport conosce Mauro Berruto come il commissario tecnico che guidò la nazionale maschile di pallavolo al bronzo olimpico nel 2012. Chi segue la politica ricorda che Berruto è stato eletto alla Camera dei Deputati alle ultime elezioni fra le file del Partito Democratico. Chi segue entrambi forse sa che Berruto il 9 marzo scorso ha presentato una proposta di legge che mira a introdurre “l’insegnamento della storia dello sport nell’ambito del sistema nazionale di istruzione”. Non a caso, vien da aggiungere, considerato il suo curriculum impreziosito da una laurea in filosofia, da un’esperienza come amministratore delegato della Scuola Holden di Torino e da una prolifica attività come formatore e inspirational speaker.
Nel testo depositato alla Commissione Cultura della Camera, si propone che la storia dello sport venga inclusa nell’ambito trasversale dell’educazione civica, la materia inserita nei programmi scolastici dalla Legge n. 92/2019, che con un monte orario annuo di almeno 33 ore promuove “la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della società”.

Mauro Berruto alla Camera dei Deputati

L’educazione civica non gode in verità di ampia stima fra gli operatori scolastici per gli obblighi riorganizzativi che ha imposto, per la doverosa pianificazione coordinata cui sono chiamati i docenti, per la pressione che esercita sui già ingolfati orari scolastici. Non si va probabilmente molto lontani dal vero a immaginare una ricezione non entusiasta della (prospettata) novità legislativa.
Ma quali opportunità si potrebbero schiudere se la proposta di legge fosse approvata e la storia dello sport diventasse materia di studio?
In primo luogo, si potrebbe affrontare più distesamente la storia del Novecento, il secolo che è spesso oggetto di attenzione parziale e che invece sarebbe doveroso maneggiare con disinvoltura per comprendere appieno l’attualità in cui viviamo. E qui il contributo che potrebbe dare lo sport è di enorme impatto: per quale motivo?
La risposta è nella natura di “fenomeno sociale totale” che lo sport ha assunto proprio negli ultimi cento anni, nel periodo in cui sono venute alla ribalta le masse popolari, il “quarto stato”, le donne e i giovani. L’irruzione degli umili sul palcoscenico della storia ha favorito e richiesto lo spostamento della lente di osservazione, a vantaggio di un’indagine storica che finalmente esce dai palazzi di governo, dai solenni emicicli parlamentari, dagli uffici degli Stati maggiori e va alla ricerca delle persone comuni, per affiancare alla conoscenza dei grandi fatti l’analisi dei piccoli eventi della vita quotidiana. È questo il grande insegnamento dello storico francese Marc Bloch, cui si deve la teorizzazione della storia come “scienza degli uomini nel tempo”. Scrive Bloch che «dietro gli scritti che sembrano più freddi e le istituzioni in apparenza più totalmente distaccate da coloro che le hanno fondate, sono gli uomini che la storia vuol afferrare […]. Il bravo storico somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda»[1]. La massima aspirazione dello storico che predilige questo approccio è per l’appunto capire cosa pensano le persone. La domanda pertanto è: come si può sapere cosa passa per la testa della gente?
Non è per niente facile e lo stesso Bloch ammette sconsolatamente che l’impossibilità di penetrare la mentalità umana nei tempi più remoti fa talvolta assumere alla storia «la fisionomia, un po’ sbiadita, di un mondo senza individui» [2].
Al contrario, per comprendere idee e punti di vista, speranze e paure, desideri ed emozioni delle persone, nel XX secolo non abbiamo che l’imbarazzo della scelta fra le innumerevoli tracce lasciate dagli esseri umani: l’associazionismo sindacale e politico, le rivoluzioni e le manifestazioni di piazza, gli esiti delle periodiche tornate elettorali e degli ancor più frequenti sondaggi demoscopici. Ma le moltitudini, per la prima volta nella millenaria parabola umana e in una porzione di mondo non proprio trascurabile, si sono anche dedicate anima e corpo alle moderne forme dell’intrattenimento (la musica, il cinema, la radio, ecc.). Fra queste, lo sport occupa uno spazio tutto particolare per le mille connessioni con la politica, l’economia, la cultura, il linguaggio, la psicologia e per la capacità di «generare aggregazione, empatia, immedesimazione» [3], forgiando per questa via la percezione del mondo da parte di chi vi riversa – nello sport – creatività, fisicità ed emotività. Studiare lo sport e i suoi percorsi consente quindi di avvicinare il Sacro Graal del pensiero individuale e collettivo.
Nella relazione introduttiva alla proposta di legge, Berruto non manca inoltre di ricordare come lo sport sia cultura e oggetto esso stesso di una vastissima produzione culturale, che rappresenta un inesauribile giacimento di indagine e di senso, e che si presta a un’interpretazione multidisciplinare della realtà.
Il che permette, a sessant’anni dalla nascita della società consumistica e di massa, di mettere a frutto, per la più comprensibile illustrazione della storia contemporanea, la sterminata messe di cultura pop generata a partire soprattutto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Come negare lo status di caposaldo culturale, almeno della cultura dell’Occidente, a opere cinematografiche come Quarto potere o Il dottor Stranamore, o a canzoni come Johnny B. Goode o Blowin’ in the wind? Come disconoscere – per riprendere ancora l’introduzione di Berruto -, che dalla metà degli anni ’40 il riscatto morale e la ripresa di fiducia degli italiani, innescato dalla Resistenza e nutrito economicamente dall’adesione al Piano Marshall, passò anche per le vittorie all’estero di Gino Bartali e Fausto Coppi? Come stabilire se la battaglia per i diritti civili e politici degli afroamericani è più in debito con l’appassionante retorica del reverendo King o con la ferrea determinazione di Muhammad Ali?

Muhammad Ali e Martin Luther King

Con questo non si vuole, beninteso, sovrastimare l’effetto che le imprese sportive hanno sui gruppi umani. È impossibile dire quanto la dittatura di Jorge Videla beneficiò della vittoria al Mundial del 1978 ed è certo che la sua fine fu determinata dall’umiliazione nella guerra delle Falkland/Malvinas, piuttosto che dalla precoce eliminazione dell’Albiceleste nella Coppa del mondo del 1982. Tuttavia, è altrettanto sicuro che la mano de dios, il gol irregolare segnato da Diego Maradona contro l’Inghilterra nei quarti di finale dei Mondiali messicani del 1986, contribuì almeno simbolicamente a sanare le ferite psicologiche del popolo argentino.
Quanto si intende ribadire è che i riflessi delle maggiori manifestazioni sportive, delle prodezze memorabili di atleti e atlete, il ricordo di queste, che sovente – soprattutto a distanza di anni – trascolora nel mito, sono suscettibili di orientare l’opinione che le persone hanno del loro tempo. Di conseguenza, contribuiscono a formare le convinzioni e il modo di pensare dei contemporanei, plasmano le griglie interpretative con cui osservano la realtà e soprattutto suscitano, delineano e riaffermano i sentimenti di appartenenza alle comunità nazionali e concorrono a comporre le identità collettive [4].
Anche per questi motivi, la trasmissione della memoria di gare, partite e record, di campioni e campionesse, promette di aprire squarci utili alla comprensione del tempo e del sentire collettivo, oltre a ravvivare l’interesse degli studenti e delle studentesse, generalmente abituati a una rappresentazione della storia più “ufficiale”, più accademica, più “aristocratica”, nella quale i fatti e le dinamiche paiono il frutto esclusivo di scelte volontarie di pochi personaggi principali.
Infine, e in ultimo, questa peculiare angolazione illustrativa incentiva una narrazione storica “dal basso”, che è adatta per sfruttare il potenziale pedagogico dell’arte del racconto. Gli esseri umani sono nati per narrare e ascoltare storie [5]. Lo fanno dalla notte dei tempi e a qualunque età: per cementare i legami comunitari, per trasmettere i valori e i principi che li tengono insieme, per dare un ordine comprensibile all’universo che li circonda, per svelare il senso del proprio mondo interiore, per intrattenersi e per mille altri motivi. Al centro della narrazione vanno quindi le microstorie di singole vicende sportive e umane, con una drastica rimodulazione della scala di osservazione, che stringe sul particolare e coglie soggetti altrimenti lasciati ai margini della macrostoria. D’altra parte, per non rischiare di perdere di vista le accertate evidenze storiche, occorre praticare un gioco di continui rimandi fra i due piani. Allo stesso modo in cui – per richiamare una similitudine desunta dal cinema – “il Biondo”, Tuco e “Sentenza”, nel film Il buono, il brutto e il cattivo, dipanano le loro vite personali in costante contatto con la macrostoria della guerra civile, che costituisce la cornice storica sempre incombente, così la prospettiva di dettaglio deve convivere con lo sguardo da lontano [6], in una incessante azione di raffronto e comparazione, affinché il focus sul particolare non si riduca ad aneddotica banale e vuota, che rischia di falsificare il dato storico, e la macrostoria non retroceda in uno sfondo indistinto che confonde i fatti e le loro interpretazioni.

 

[1] Bloch, M., Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1998.

[2] Ibidem.

[3] Cfr. la proposta di Legge del 9 marzo 2023, visibile all’indirizzo http://documenti.camera.it/leg19/pdl/pdf/leg.19.pdl.camera.970.19PDL0027530.pdf.

[4] Hobsbawm, E., Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, Torino, 1991.

[5] Fra i tanti, lo ricorda anche Yuval Noah Harari, in 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018.

[6] Si fa riferimento qui alle riflessioni di Carlo Ginzburg e altri studiosi riuniti nella rivista Quaderni storici, della casa editrice Il Mulino.

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