Storia
La storia al guinzaglio. Polonia 2018
Da ieri Jan Tomasz Gross, lo storico polacco-americano, se per caso tornasse in Polonia, rischierebbe il carcere per offesa allo Stato. Tre anni di carcere, per la precisione.
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Il Senato polacco, a larga maggioranza, ha approvato in via definitiva la legge sull’Olocausto che vuole difendere l’immagine del Paese, come propone il partito conservatore Diritto e giustizia (Pis) diretto Jaroslaw Kaczynski (perché divenga operativa occorre che il presidente Andrzej Duda, la firmi. Non ci sono dubbi che lo farà). La legge prevede fino a tre anni di carcere o una multa per chi definisca «polacchi» i campi di sterminio installati dai nazisti in Polonia durante la Seconda guerra mondiale.
La descrizione non dice una bugia. Ma non dire una bugia non significa dire la verità. Nel concreto significa decidere di non interrogarsi sul proprio passato.
Sia chiaro fin da subito: intorno alla questione di cui si discute qui nessuno è assolutamente innocente. Nell’Europa dell’«Ordine nero», tra 1940 e 1945 nessuno può dire di non aver collaborato (e se per caso dovessimo ragionare da qui, dall’Italia basterebbe ricordare come una parte consistente della deportazione dall’Italia verso i luoghi della morte avvenne sulla base di delazione, a conferma che quello del bravo italiano è un mito).
Ma allo steso tempo, indipendentemente dal tempo che ci distanzia da quella Europa, accusare di complicità un’intera nazione, senza fare un’analisi delle molte forme di collaborazione, ovvero della lunga tastiera in cui si mescolano atteggiamenti, decisioni, deliberazioni – significa adottare uno sguardo metafisico sul passato.
La “zona grigia” (in tutte le sue gradazioni dal grigio cenere vicino al bianco, al grigio cupo vicino al nero) è un coacervo di scelte, atteggiamenti, mentalità che è sbagliato non solo mettere tutte insieme e confondere, ma anche non analizzare con attenzione. Anche perché la “zona grigia” è quella porzione di società, che se analizzata senza pregiudizio, dice molto di ciò che è la natura umana, non solo nel momento delle scelte, ma anche di come poi successivamente, ricostruisce il proprio ritratto.
Anche per questo è interessante tornare a considerare ciò di cui si discute in Polonia in questi giorni e più specificamente che cosa significhi, e in quale clima culturale, politico, emozionale, e mentale, sia maturata quella decisione, perché abbia consenso e infine a quale desiderio di Europa di domani alluda.
Provo a spiegarmi.
E’ indubbio che il nazismo e l’organizzazione politica, operativa, anche tecnica dello spazio rappresentato dai campi di concentramento e di sterminio, non fosse opera dei polacchi. Così com’è rilevante che una parte della popolazione polacca si sia mobilitata contro il sistema dello sterminio. Dunque da questo punto di vista la legge stabilisce un’ovvietà.
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Tuttavia è altrettanto indubbio che la possibilità dello sterminio, la sua radicalità, la sua efficienza, in una parola la sua realizzabilità e anche il suo successo dipendano dalla rete di consenso, d’indifferenza, di antisemitismo che ha connotato a lungo la storia, la politica, la cultura, e anche la mentalità diffusa in Polonia.
Dunque il problema non è penalizzare il sentimento antipolacco, ma non fare i conti con molte altre cose che stanno intorno allo sterminio, che spesso lo rendono possibile, che non vi si oppongono, che talvolta lo precedono e che anche dopo, a sterminio avvenuto, non cessanno di perpetuarsi.
In Polonia è accaduto (come in molti altri contesti: per esempio in Francia, in Italia, in Ungheria, tanto per citarne alcuni) che la caccia agli ebrei, in prima persona, e ai loro averi dopo che erano morti, non la facessero solo gli occupanti tedeschi. Ma dire questo in Polonia oggi è penalmente perseguibile.
Capita così che non si possa dire che ciò che che è accaduto all’ebreo vivo a Jedwabne nel 1941 quando è la popolazione locale, prima che ci pensi l’occupante, a fare lo sterminio; o a Kielcze, il 4 luglio 1946, dove furono uccisi 40 ebrei e 80 feriti semplicemente perché essendo sopravvissuti allo sterminio, ritenevano che avessero diritto di ritornare nelle proprie case in quel momento occupate da polacchi che ora si ritenevano i nuovi padroni. Ma anche per l’ebreo morto non c’è tregua (più spesso lo stesso i suoi vicini di casa hanno contribuito volontariamente e gioiosamente a consegnare all’occupante nazista) dove il problema è prima di tutto andare a impossessarsi di ciò che è rimasto.
E’ il profilo della riflessione proposto dallo storico polacco-americano Jan Tomasz Gross – peraltro già messo sotto inchiesta due anni fa in Polonia – che sia con I carnefici della porta accanto (Mondadori) e poi con Un raccolto d’oro (Einaudi), ha dimostrato due cose che oggi in Polonia non si possono dire: 1) antinazismo e lotta all’antisemitismo non sono naturalmente coincidenti; 2) fare i conti con la vicenda dello sterminio, richiede che preliminarmente si smetta di raccontarsi solo come vittime o come estranei.
La legge approvata ieri è soprattutto una macchina ideologica che ha tre scopi: 1) serve a scansare le responsabilità; 2) contribuisce a dare di sé un’immagine metafisica e fuori dalla storia; 3) è funzionale a descrivere se stessi, a priori, come innocenti, incontaminati.
A ben vedere, tre punti indispensabili, anche se non sufficienti, che indicano e illustrano il codice culturale che le società civili e politiche nel corso degli ultimi cento anni hanno espresso allorché hanno intrapreso la strada di avvicinamento verso il totalitarismo. Un codice fondato su tre elementi costantemente presenti, ovvero: vittimismo, nazionalismo, e rancore.
In Polonia questi tre elementi, congiunti a una nostalgia suprematista, in cui tornare a invocare una Polonia bianca (come è accaduto nella manifestazioni dello scorso 11 novembre in Polonia in occasione dell’anniversario dell’indipendenza) sono da tempo all’opera. Anche per questo quanto accaduto ieri non è una sorpresa.
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