Storia
La sinistra italiana e gli ebrei. Ma anche gli altri
La conclusione di Alessandra Tarquini nel suo libro su sinistra italiana e gli ebrei (il Mulino) consiste nel fatto che gran parte della sinistra quando si è confrontata con la propria memoria, ma anche si potrebbe dire con le linee essenziali e storiche della costruzione della propria identità politica e culturale, si è spesso preoccupata e confrontata con il timore del venir meno dell’antifascismo “senza chiedersi come mai la cultura della quale sono espressione ha fatto così fatica a occuparsi degli ebrei” [p.286].
È una domanda corretta e, a mio avviso, centrata. Se ne potrebbe fare anche un’altra (che non smentisce questa, ma che forse aiuta comprendere un processo, tanto da contribuire a rafforzarla) ma lo accennerò solo in conclusione. Prima vale la pena raccontare il libro di Alessandra Tarquini.
Dunque, il tema è proporre un lungo excursus che parte con le premesse della nascista culturale della sinistra in Europa intorno alla Rivoluzione francese e poi ai molti nodi irrisolti della costruzione del pensiero socialista(Marx, ma soprattutto Blanqui, Toussenel, Proudhon, senza tralasciare i riformisti come Malon, una figura che ha un peso consistente nella costruzione culturale del socialismo italiano negli anni tra Comune di Parigi e fondazione del PSI – o gli operaisti come Guesde, una ricca famiglia di ritratti dove il linguaggio antisemita è spesso più forte tra i riformisti che non tra i rivoluzionari) per attraversare il profilo culturale delle molte famiglie politiche della sinistra in Italia più o meno dagli anni della fondazione del Psi (1892) fino al suo scioglimento e, in contemporanea, l’autoscioglimento del Pci per avviare la nuova avventura del PDS.
In quell’excursus la sensibilità (politica, culturale, emozionale, per certi aspetti anche genericamente umana) dimostrata dalle molte famiglie della sinistra in Italia prima alle condizioni delle diverse minoranze ebraiche in Europa è alquanto scarsa.
Prima è un discorso tra dispotismo e democrazia, per cui nella riflessione socialista la questione dell’antisemitismo è il marchio dei sistemi non democratici (Russia zarista in testa) anche se l’Affaire Dreyfus segna un campanello d’allarme sulla permeabilità traversale dell’antisemitismo disegnando schieramenti traversali tra destre e sinistre in cui l’elemento della “Nazione” ha un ruolo non indifferente (è un elemento che sistematicamente tornerà in tutte le svolte culturali delle sinistre quando manifestano il proprio antisemitismo ed è il punto di incontro di tutte le parabole culturali e politiche – individuali e di gruppo – che da sinistra vanno verso destra nel corso del ‘900).
L’antisemitismo dunque per il movimento socialista (non solo in Italia, ma più generalmente nel linguaggio della II Internazionale) è un fenomeno che riguarda solo i propri avversari, non il proprio campo (nelle culture, ma anche nelle emozioni; per esempio questo è un aspetto che sarebbe utile scavare per capire come si forma il linguaggio anche antisemita della sinistra inglese, per molti aspetti diverso, ma non opposto a quello del conservatorismo inglese).
Questo tratto si conferma non solo negli anni tra le due guerre, ma anche nella lunga stagione del dopoguerra (la parte più consistente della monografia di Tarquini è concentrata sul secondo dopoguerra).
In quel secondo dopoguerra Tarquini individua varie stagioni ma anche non si limita a una sola agenzia, ma tiene conto di uno spettro ampio di figure, di gruppi dirigenti politici: dai socialdemocratici di Saragat, alle molte anime del Psi, ai comunisti, alla nuova sinistra. E inoltre non solo i partiti, ma anche i gruppi intellettuali o le riviste che hanno definito l’identità culturale delle sinistre italiane nel secondo dopoguerra (“Rinascita”, “Mondoperaio”, “Nuovi Argomenti”, “Il Ponte”, “Astroloabio”, “Tempo presente”; “il Manifesto” (in questa unga scorribanda non sarebbe stato improprio, mi sembra di non averla mai incontrata, anche un breve cenno intravedere cosa accada quando compare una rivista come “MicroMega” o con gli effetti di una riflessione anche sulla questione dell’antisemitismo una volta che si apre il laboratorio della discussione sul dissenso all’Est negli anni ’80: penso per esempio auna rivista come “L’Ottavo giorno”, ma anche a cosa significa confrontarsi con le società civili dell’ex blocco sovietico, un tema che parla di oggi)).
In questo tratto due sono i temi della questione:
Il primo riguarda i temi del confronto e della riflessione del lascito culturale, politico, emozionale,..) dell’antisemitismo razzista del fascismo italiano (un tema che solo con gli anni’90 diventa una discussione sul paradigma culturale dell’identità italiana, e allora il tema da indagare è perché occorrano cinquant’anni per aprire un serio ragionamento sulle culture del razzismo italiano che, è bene ricordare, non significano solo antisemitismo) e, insieme, quelli dell’analisi di ciò che era entrato – e spesso non era entrato nella cultura fondativa dell’esperienza dell’antifascismo italiano, sostanzialmente poco sensibile al tema dell’antisemitismo).
Il secondo riguarda come la sinistra italiana a partire già dall’immediato dopoguerra riflette intorno al processo della nascita dello Stato di Israele e, più in generale, che immagine ha della questione israelo-palestinese (sullo sfondo si potrebbe anche dire che immagine ha della questione mediorientale più in generale).
Il primo riguarda come lentamente le culture sociali e politiche dell’antifascismo nell’Italia repubblicana siano state capaci di mettersi in gioco di fronte al fenomeno e all’analisi dell’antisemitismo – non solo nel fascismo – ma anche in ciò che era rimasto “attaccato” alle loro culture. In questo senso si trattava di fare i conti non solo col proprio passato generico, ma con il proprio passato autobiografico (la storia di Franco Fortini è esemplare da molti punti di vista e su questo Tarquini giustamente insiste).
Contemporaneamente si trattava di riflettere sull’idea di Italia mediterranea – altro elemento che pesca nella cultura lunga italiana, almeno dal nazionalismo dei primi anni del ‘900 – e su un suo possibile ruolo nel momento della ridiscussione della geografia della “Guerra fredda” nel corso degli anni’80. Lì mi sembra risiedere una delle matrici del fascino che quell’«antico mito» gioca nella riflessione di Bettino Craxi, e su cui ci sarebbe da scavare per individuare un tratto culturale sottotraccia dell’identità della cultura del socialismo in Italia nel corso del’900.E parallelamente lì sta una delle idee di “politica regionale” che muovono la riflessione politica negli anni del Pci di Enrico Berlinguer e poi nel Pds di Massimo d’Alema. Ma anche si potrebbe osservare nello scarso peso che ha la cultura – economica, politica, sociale- di pensare Europa a partire dagli anni ’70 in tutte le agenzie della sinistra (riformista, radicale, rivoluzionaria, “nuova”,….).
Un tratto che, significativamente romperanno solo alcune figure che hanno vissuto da marginali o da “esuli in patria” la riflessione per un rinnovamento del paradigma culturale della sinistra almeno dalla fine del “mito dell’Urss” o meglio che non hanno mai avuto il mito dell’Urss che hanno dovuto conviverci con estrema difficoltà
Ma anche riguarda una cultura del terzomondismo italiano, in cui ritorna un elemento di fascino del “primitivo” dell’antindustriale, di una visione eroicizzata del primitivo, nei cui confronti Furio Jesi già negli anni’70 metteva in guardia senza successo, né allora, né ora. Quel paradigma è ancora molto forte nella cultura e nel linguaggio di noi italiani (di sinistra, e di destra).
Gran parte del fascino – e qui mi immetto nel secondo tema della questione – che le sinistre italiane (spesso con un linguaggio non molto diverse da quello delle destre nazionaliste e rifondative dell’idea di Europa che guardano con entusiasmo al codice culturale dell’Italia degli anni ’10 del Novecento) hanno nei confronti della realtà politica, culturale, dei palestinesi e dei movimenti ha la sua origine nell’anti-industrialismo e, ancora di più, nel proprio antiamericanismo. Ma anche in quella cultura orientalista avrebbe detto Said, che nasce laddove proprio costruisce un paradigma vittimario di e steso e allo stesso tempo ha bisogno di santificare vittime per ché ha una visione della politica manichea, fondata sull’ansia di individuare il “portatore di bene”, di solito identificato con l’aver “subito la storia “ (in questo dimenticando che nella storia ciascuno ha una parte di responsabilità nella propria condizione, compresa la condizione di sconfitto, e che una possibilità di riscatto sta nell’affrontare preliminarmente le proprie responsabilità).
Tarquini ha il merito in questo libro sia di tener distinti questi due piani, sia di farli interagire, non confondendo, i piani di analisi.
Non è poco. UN’ultima questione che forse come scrivevo all’inizio che non smentisce l’impianto del libro, ma che forse aiuta comprendere un processo, tanto da contribuire a rafforzarlo.
Nella storia della cultura politica in Italia – lungo tutto l’arco dello schieramento politico e delle aree culturali – un peso rilevante lo ha la cultura della Chiesa.
Sul tema in questione quella cultura non è stata assente, anzi è stata molto spesso determinate e lo è stata, significativamente, nelle culture che nel secondo dopoguerra si sono confrontate con la questione medio-orientale a partire dal destino dei «luoghi Santi» perché in gioco, in chi detiene quei luoghi sta, anche, un segmento rilevante della propria identità, prima ancora che un segmento rilevante della propria storia.
Il linguaggio della Chiesa in Italia non ha avuto un peso rilevante solo nelle realtà dell’associazionismo cattolico direttamente espressione della Chiesa, ma lo ha avuto nella formazione dei quadri dirigenti di tutte le formazioni politiche italiane (nuova sinistra e nuova destra incluse) lo ha avuto nella formazione di ciò che si chiama rapporto tra “primo mondo” e “Terzo (o quarto) Mondo” nel secondo dopoguerra.
E lo ha avuto nel modo in cui si è discusso (più spesso non discusso) di antisemitismo.
Mi piacerebbe, un giorno, con la stessa acribia, trovarmi tra le mani un libro che provasse a connettere queste diverse storie in una storia che per molti aspetti non può non essere raccontata che “tutta intera “ e “a parte intera”
Alessandra Tarquini ci ha messo un pezzo. Non è poco. È importante. È anche importante, senza pretendere che ce lo consegni Alessandra Tarquini, sapere che cosa manca.
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