Storia
La sfida di progettare futuro condiviso nel tempo dell’odio
La storia battaglia è tornata ad essere la cifra di questo nostro tempo. Strano destino di una generazione di storici e di ricercatori che erano partiti con in testa la lunga durata di Fernand Braudel e si ritrovano nel filo spinato della storia evenemenziale tutti i giorni. Forse è l’effetto dello schiacciamento del tempo, forse quello della incapacità di trovare una modalità per pensare la storia di collocarla in un tempo lungo.
La storia si produce in molti luoghi, e la si racconta attraverso molte e diverse strutture narrative e performative. Resta il problema non tanto del criterio di lettura adottato, quanto del profilo temporale con cui è possibile individuare e dunque reimpostare un profilo narrativo.
Proviamo a fare un esercizio.
D’accordo o meno, il profilo del secolo breve proposto da Hobsbawm fa ormai parte della divisione temporale del Novecento. E’ uno schema riduttivo e, soprattutto, afferma come dimostrato ciò che vorrebbe dimostrare.
Davvero un secolo iniziato nelle trincee dela Prima guerra mondiale, insieme e intrecciandosi con il’avvio dei processi di rivolta e di rivoluzione che tra 1917 e 1918 si chiude 70 anni dopo sotto le macerie di quel progetto di trasformazione che si arena?
Siamo proprio sicuri che quella scansione temporale funzioni?
Il Novecento è per davvero finito quando è crollato il Muro di Berlino?
Ho dei dubbi, anche se non stento a credere che quella scena, quella del 9 novembre 1989 sera sia stata l’ultima vera scena di felicità collettiva dell’Occidente. Dopo è iniziato un tempo diverso in cui non solo la storia non è finita, ma il sentimento di successo si è spostato su altri e diversi principi. Diceva che un altro futuro era possibile (e fin qui niente da eccepire). La premessa non era la felicità per tutti, ma solo per me, appartenente a una comunità di destino che vedeva gli altri,(gli avversari politici, i differenti credenti, oppure i liberi ) come ostacolo al raggiungimento della propria felicità.
La continuità con il tempo precedente consisteva nel principio che il futuro stava nei «liberati».
Quel momento sta prima del cosiddetto «indimenticabile ’89». Sta invece in un «dimenticato ’79». Provo a spostare la data di quella inizio di fine di almeno 10 anni più indietro e lo colloco in due luoghi diversi del globo e in due atti di rottura radicale del percorso del Novecento e che hanno appunto segnato, lì, la felicità di chi in quel momento percepiva il cambio di passo della storia.
Il primo è a Teheran.
1 febbraio 1979, Khomeynī scende dall’aereo che lo riporta a casa dopo molti anni di esilio. Improvvisamente o comunque molto celermente cambi la struttura del rapporto tra Oriente e Occidente, tra Primo mondo e Terzo mondo (anche se nei fatti sarei molto cauto a definire Iran come Terzo mondo. Ma è un fatto, tuttavia, che da quel momento qualcosa sia strutturalmente cambiato).
Se il Novecento era stato un lento percorso di decolonizzazione, prima segnato dalle procedure mandatarie che voleva dire lento distacco verso l’indipendenza attraverso la costruzione di classi dirigenti e di governo che nei fatti riproducevano la cultura delle metropoli coloniali il processo di mobilitazione, l’immaginario ideologico e mentale che percorre le strade di Teheran quel giorno dice che inizia un nuovo processo dove iniziano a contare altri fattori e quei fattori non solo divisivi con il Primo mondo, ma sono anche conflittuali e concorrenziali dentro l’area vasta e variegata di ciò che fino a quel momento abbiamo radunato sotto il concetto di Terzo mondo.
Il secondo è a Londra.
4 maggio 1979. Margaret Thatcher s’insedia al n. 10 di Downing Street e la prima cosa a cadere è il sistema di welfare, così come lo abbiamo conosciuto a partire dall’esperienza laburista di governo tra 1945 e 1950.
Inizia una nuova fase che verrà rinforzata l’anno seguente dalla vittoria di Ronald Reagan alle presidenziali americane e dal trionfo dei «Chicago boys» in economia.
Lo stato assistenziale, entra in una condizione di lenta, ma irreversibile riforma al ribasso, comunque subisce una riscrittura profonda. Lì sostiene il sociologo Mark Lilla si definisce anche una dimensione cultural-politica che fa perno sulla categoria di identità e che insieme alla crisi del Welfare indica il tramonto della politica inclusiva, e di culture politiche volte alla emancipazione. Inizia ad affermarsi, invece, una politica fondata sull’identità. Una categoria che segna ora un tratto di egemonia e da cui qualsiasi politica democratica che voglia ragionare in termini di inclusione reale deve prendere le distanze.
Per farlo si possono aprire molti cantieri di lavoro. Il primo, tuttavia, è proprio nel modo di raccontare la storia del Novecento, un secolo che abbiamo fato nostro negli ultimi venti anni per costruire memoria per domani e che le scelte politiche degli ultimi mesi (vedremo cosa uscirà dalle urne stasera in Svezia, ma è probabile che sarà una conferma di questo trend) dimostrano che quella consapevolezza di un passato da reimpostarsi per provare a costruire un XXI secolo non fondato sull’oblio dei totalitarismi rischia di parlare a nessuno. Soprattutto ha sempre meno audience.
Il senso comune va da un’altra parte.
E’ il tempo per provare a costruire futuro partendo dal futuro sostenibile, condiviso che vogliamo e non più prevalentemente dalle lezioni del passato. Qualcuno in questi giorni sta dicendo che per riflettere sul senso profondo del “fare storia” e “fare memoria” oggi è necessario ragionare di nuovi “spartiti” memoriali, preparare le sfide che ci aspettano in questa Italia, in questa Europa e in questo mondo in crisi, che hanno bisogno di sperimentazioni culturali inclusive e incisive. Ha un senso.
Costruire memoria per domani così come l’abbiamo praticato e battuto negli ultimi venti anni, va completamente ripensato.
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