Partiti e politici
La Rivolta dimenticata di Reggio Calabria
Era una giornata di caldo afoso, di quelle che al sud scandiscono l’estate. Aria calda, sole battente e il mare come orizzonte.
Era il 14 luglio 1970. Cinquant’anni fa come oggi.
A Reggio Calabria la calma piatta dell’estate è solo apparente, sotto c’è un grande fermento che ci metterà un attimo ad esplodere. Quando arriva la notizia che a capoluogo di Regione è stata designata Catanzaro, scoppia la ribellione popolare: per la prima e unica volta nella storia dell’Italia repubblicana un’intera città si solleva contro il governo nazionale e locale.
I moti di Reggio dureranno per quasi due anni, con un conto pesantissimo in termini di morti e feriti. Oltre agli ingenti danni economici. La città si trasforma in una sorta di Belfast: barricate, auto date alle fiamme, scontri con le forze dell’ordine, interi quartieri in cui divampa la rabbia popolare. Di quella rivolta oggi nessuno parla più, è stata inghiottita dalla memoria collettiva, finita sotto una cappa di oblio. Oppure bollata, dai pochi che la ricordano, come la rivolta fascista dei “boia chi molla”.
Ma riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di capire cosa accadde il 14 luglio di cinquant’anni fa nella città più a sud dello Stivale.
All’inizio una rivolta di popolo
La Costituzione del ‘48 istituisce le Regioni, ma il decentramento amministrativo previsto dalla Carta rimane lettera morta fino al 1970 quando si tengono le prime elezioni regionali.
Al momento di stabilire quale sia il capoluogo la scelta del Consiglio ricade incredibilmente su Catanzaro e non, come era lecito attendersi, sulla città più grande, popolosa e antica della Calabria, la cui fondazione risale addirittura al tempo dei Greci (730 a.C.). I reggini reagiscono immediatamente con uno scatto d’ira e d’orgoglio.
Il 14 luglio 1970 molti cittadini si riuniscono sotto al palazzo del Comune. La polizia carica con violenza i dimostranti: è la scintilla che dà inizio ai Moti. Il primo morto arriva il giorno dopo, si chiama Bruno Labate, è un ferroviere di 46 anni. Da lì in avanti sarà un’escalation di violenza. Alla fine delle proteste si conteranno 11 morti e centinaia di feriti. Per non parlare degli assalti agli uffici pubblici, alle sedi dei partiti e dei sindacati, finanche alla Questura dopo l’uccisione di un ferroviere, Angelo Campanella, da parte delle forze dell’ordine. Ben presto, però, la spontaneità della Rivolta si esaurisce e la direzione strategica passa nelle mani della destra eversiva e di un’organizzazione criminale che proprio in quel periodo si sta strutturando per fare il salto di qualità: la ‘ndrangheta.
Il ruolo di DC, PSI e PCI
La partita per il capoluogo evidentemente non si gioca in Calabria, ma a Roma. Quella che dovrebbe essere una scelta scontata si rivela un grande inganno per la città di Reggio.
Di mezzo ci sono gli equilibri interni alla Democrazia Cristiana, il partito di maggioranza relativa, e gli appetiti del PSI.
Nelle stanze del potere romano Reggio conta poco o nulla, mentre Cosenza – che sosterrà la candidatura di Catanzaro a capoluogo, ottenendo in cambio il primo polo universitario della regione – ha dalla sua due pezzi da novanta come il potente democristiano Riccardo Misasi, ministro del Commercio con l’estero tra il 1969 e il ‘70, e il segretario del PSI, Giacomo Mancini, già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici negli esecutivi guidati da Moro e Rumor negli anni Sessanta.
Reggio può contare solo sul sindaco DC Piero Battaglia che, andando contro le decisioni prese dal suo partito a livello nazionale, difende a spada tratta gli interessi di Reggio. Farà scalpore il suo “Rapporto alla città” che tiene in un’affollata Piazza Duomo invitando la popolazione a mobilitarsi per sostenere il diritto di Reggio al ruolo di capoluogo. Ma a Roma il sindaco è vox clamantis in deserto. Non ha peso specifico, le sue proteste verranno ignorate e finirà isolato all’interno del suo stesso partito.
L’errore strategico più grande, però, lo commette il PCI che non riesce a comprendere che dietro ai moti per il capoluogo si cela tutto il malessere di una grande città del Sud che si sente abbandonata dallo Stato. Quella per il capoluogo non è solo una lotta di campanile, è una rivendicazione di diritti. Per il lavoro, soprattutto.
Non a caso nei primi giorni della Rivolta a scendere in piazza è tutta la città, con le donne e la classe impiegatizia in prima fila.
La deriva fascista: Ciccio Franco e i “Boia chi molla”
Tradita dai due partiti di maggioranza (DC e PSI), abbandonata al suo destino dalla maggiore forza di opposizione, Reggio diventa facile preda della destra. È qui che entrano in gioco i fascisti. E non solo loro.
Nata come legittima rivolta di popolo, la rivendicazione per Reggio capoluogo si trova ben presto a essere strumentalizzata dai missini guidati da Francesco “Ciccio” Franco, un sindacalista della Cisnal che si mette a capo della protesta e appare agli occhi dei reggini come un difensore degli interessi della città.
La sua è una scommessa azzeccata, una scelta di campo fatta inizialmente contro il volere dello stesso Almirante. Il MSI punta tutte le sue fiches sui Moti e, grazie a quell’intuizione, camperà di rendita a Reggio per i successivi trentacinque anni.
Franco fa suo il motto “Boia chi molla” e fonda il Comitato d’Azione per Reggio Capoluogo. Arrestato e poi messo a piede libero, si renderà irreperibile. A Oriana Fallaci, che lo intervista mentre è latitante, dirà che molti giovani reggini di sinistra stanno rivedendo in quei giorni le proprie convinzioni politiche “perché ritengono che la battaglia di Reggio sia interpretata in modo fedele solo dai fascisti”.
Un laboratorio della strategia della tensione
La lettura dei moti di Reggio deve essere fatta su più livelli. Non ci sono solo i partiti, con gli accordi sottobanco tra gli esponenti catanzaresi e cosentini di DC e PSI, e la tragica miopia del Partito Comunista.
A segnare quella stagione sono altri incontri segreti e altri accordi di potere che vengono siglati nei giorni della Rivolta.
Non dimentichiamo che siamo all’inizio della cosiddetta “Strategia della tensione”: la strage di piazza Fontana è di appena sette mesi precedente lo scoppio dei moti reggini.
A Reggio, in quel periodo turbolento, si vedono personaggi inquietanti. Uno di questi è Junio Valerio Borghese, l’ex comandante fascista della X^ Mas promotore del golpe che fallirà alla fine di quello stesso 1970. La Rivolta è dunque l’occasione per fare le prove generali e consolidare nuove alleanze. Tramite il suo luogotenente in Calabria, il marchese Felice Genoese Zerbi, Borghese ha stretto rapporti con l’ala moderna della ‘ndrangheta reggina guidata dall’ambiziosa cosca De Stefano. Nell’ottica di questo nuovo patto tra eversione nera e ‘ndrangheta in città passeranno in quegli stessi anni anche il fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie, e l’assassino del giudice Occorsio, il terrorista nero Pierluigi Concutelli.
Non è un caso, dunque, che nei mesi dei moti reggini si susseguano gli attentati dinamitardi, soprattutto alla linea ferroviaria.
Il più grave di tutti si registra nei pressi di Gioia Tauro: il 22 luglio 1970 un ordigno fa deragliare il treno espresso Palermo-Torino. Moriranno sei persone.
Claudio Cordova, direttore del quotidiano online “Il Dispaccio” e autore di “Gotha. Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati”, rintraccia nella Rivolta il momento in cui si realizza la saldatura tra i poteri occulti le cui trame condizioneranno pesantemente la storia d’Italia: «Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta passa dalla dimensione agro-pastorale a quella imprenditoriale e si trasforma in un centro di potere, la Santa, ovvero la sovrastruttura in cui entrano massoni e pezzi deviati dello Stato. Attraverso il legame con la massoneria e la destra eversiva la Rivolta viene strumentalizzata e la ‘ndrangheta crea le alleanze che le permetteranno di diventare nei decenni successivi l’organizzazione criminale più potente e ricca del pianeta».
Un giudizio confermato anche dal docente e storico Fabio Cuzzola, autore del volume definitivo su quei tragici eventi, “Reggio 1970. Storie e memorie della Rivolta”: «I fatti di Reggio entrano a pieno titolo nella “strategia della tensione” ma sono stati trascurati dalla storiografia ufficiale, probabilmente perché accaduti in una parte periferica e marginale del Paese».
Il romanzo
Una rivolta dimenticata, dicevamo, che però oggi finisce al centro di un romanzo. Si intitola “Salutiamo, amico” (Giunti) e lo firma l’inviato de “L’Espresso”, Gianfrancesco Turano. Non è la prima volta che Turano usa l’espediente narrativo del romanzo per affrontare vicende storiche complesse che indagano sui rapporti tra politica e criminalità. Lo aveva già fatto qualche anno fa con “Contrada Armacà”, una sorta di “Romanzo criminale” calabrese.
Adesso il giornalista e scrittore ritorna sui fatti di Reggio narrando la storia di due amici tredicenni, Nunzio e Luciano, che si trovano coinvolti loro malgrado nei moti. Il primo è figlio e nipote di mafiosi ed è tra i dimostranti sulle barricate. Il secondo, dedito allo studio, trascorre l’estate al mare con la madre. Nei mesi della Rivolta i due amici restano in contatto epistolare. Attraverso le loro lettere e il loro sguardo di adolescenti si vedono scorrere le trame che segneranno la storia della città e dell’Italia intera.
Alla prima presentazione reggina del libro non sono mancate le polemiche. Un presidio di neofascisti ha srotolato uno striscione sul quale campeggiava la scritta “Turano pennivendolo. Chi per Reggio non è peste lo colga”.
Una specie di riflesso pavloviano che scatta ogni qualvolta si mette in discussione la narrazione dei “boia chi molla” come difensori della città e vengono invece svelati i rapporti dei fascisti reggini con l’eversione di destra, la ‘ndrangheta, la massoneria e i servizi deviati.
Gianfrancesco Turano non ha dubbi: «Dà fastidio una ricostruzione della storia che svela i rapporti di potere ancora esistenti a Reggio che hanno attirato l’interesse della Lega la quale aspira, come obiettivo immediato, a prendersi la prima città metropolitana del Sud alle elezioni del 21 settembre. Lega che in Calabria mantiene stretti rapporti con le formazioni neofasciste eredi dei moti del 1970».
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