Storia

La rivolta di Sisifo. Il ghetto di Varsavia, 77 anni fa

19 Aprile 2020

Nell’anniversario dell’inizio dell’insurrezione del ghetto di Varsavia (77 anni fa,oggi)  ho ripreso in mano un libro di molti anni fa di Marek Edelman.(Il guardiano. Marek Edelman racconta, a cura di Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn, Sellerio), un po’ per ricordare,ma anche un po’ per “imparare come si fa memoria”, quando la memoria «brucia».

Nella scansione vocale del racconto di Edelman la propria vicenda personale serve a fare da sfondo a una storia corale di un soggetto collettivo che non c’è più, di un attore politico, culturale e anche umano, inghiottito e scomparso lungo le stazioni dello sterminio nazista. Edelman parla di quella storia, ma soprattutto il suo racconto è fatto di vicende singolari, di storie personali in cui ciò che emerge è un modo di essere e di stare insieme, degli scontri e dei caratteri, degli amori e dei conflitti di un cosmo umano che solo un’icona propagandistica a sempre intravisto come compatto, armonico, forte.

Edelman per quanto abbia voglia di comunicare questo mondo, meglio la memoria di questo mondo (il titolo “il guardiano” deriva da ciò che Edelman racconta di sé, ovvero il fatto che la sua funzione dopo il 1945 sia quella del “guardiano delle tombe del suo popolo”), si tiene sempre al di qua di un margine in cui la rievocazione potrebbe semplicemente cadere nell’epica, e perciò nella retorica nostalgica.

Se anche Edelman lungo la sua vita ha più volte avuto modo di considerarsi un reduce – meglio un resto residuale di quel mondo ebraico-polacco scomparso dal panorama ambientale dell’est-Europa o perché dissolto nell’aria o perché fuggito – questa condizione deve averlo più volte fatto riflettere sul senso complessivo di una storia. Ovvero sul fatto che un sogno di un partito politico – Il Bund – che prima ancora che attraversato da un progetto complessivo e organico si configurava come l’istanza integrativa, consolante, perfino struggente di una ritrovata dignità di sé. Un “partito-mamma” lo denomina Goldkorn nella introduzione, che prima ancora di delineare un futuro radioso, deve comunicare ai suoi membri la dignità di pensarsi in un “mondo futuro”, di poterne fare parte, che quel mondo non sarebbe stato tutto per loro, o pensato per loro, ma che un posto, forse anche in piedi c’era anche per loro.

“I bundisti – scrive Edelman all’inizio del suo racconto – non aspettavano l’arrivo del Messia e non si proponevano di emigrare in Palestina. Ritenevano che quello [la Polonia,] fosse il loro paese, e si battevano per una Polonia socialista, giusta, in cui ci sarebbe dovuta essere una autonomia culturale per ognuna delle nazioni, la polacca, l’ebraica, l’ucraina e la tedesca, dove i diritti delle minoranze sarebbero stati garantiti”.

Era una scommessa con la storia, per dare la propria impronta se non al presente almeno a una possibilità di futuro. Una scommessa che voleva dire pensare a una possibile etica universale, venendo meno a un’identità tribale.

La storia non è andata così.

Non è andata così negli anni ‘30 quando le correnti politiche e culturali del nazionalismo hanno avuto definitivamente il sopravvento in una Polonia in cui gli spazi di libertà e di autonomia per il mondo ebraico iniziavano a restringersi. È decisamente peggiorata nell’Europa nazificata che ha significato la dissoluzione fisica del mondo ebraico, di chi era fuori del Bund e di chi era dentro il Bund, di ciò che di quel mondo politico rimaneva alla vigilia della distruzione totale e che senza illusioni ha giocato la sua ultima mossa simbolica nell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Ha continuato lungo lo stesso crinale anche nel secondo dopoguerra. Perché se la partita per la sopravvivenza fisica poteva dirsi superata, non per questo poteva essere ripresa la scommessa politica violentemente interrotta dalla guerra.

“Il 17 gennaio 1945 i russi sono entrati a Grodzisk. Era una brigata femminile, amazzoni bellissime, con berretti di astrakan. La gente si accalcava, esultava. Io, invece, me ne stavo indietro. Guardavo e pensavo che era la fine. Ero rimasto solo. I nostri compagni non c’erano più. Il mio popolo non esisteva più. Tutto quello per cui avevamo combattuto era perduto. Il mio partito non esisteva più. (..) Finché le frontiere sono rimaste aperte la gente è fuggita. Io ho deciso di rimanere. Qualcuno doveva pur vegliare sulle tombe del nostro popolo.”

Ma la storia non è andata così anche dopo, considerata la scena del rientro tormentato e contestato degli ebrei superstiti, quando tra il 1945 e il 1947 tentato di tornare a casa e molto spesso subiscono atti di violenza. Una storia che Edelman qui non racconta, ma che resta un punto molto problematico della coabitazione tra ebrei e polacchi, in tutto il secondo dopoguerra, indifferentemente che al governo della Polonia siano stati gli uomini di Mosca o i “nuovi vecchi uomini” della Polonia post-comunista, con la sola eccezione, di breve durata della prima generazione di Solidanosc.

Raccontata così la storia di Edelman sembra comparabile alla voce del Superstite di Varsavia di Arnold Schönberg. Non è così, e del resto la funzione testimoniale ricoperta da Edelman in anni più vicini a noi – quella dell’esperienza di Solidarnosc e poi quella della voce morale negli anni duri dell’assedio di Serajevo – indicano che la scelta per la Polonia nel 1945, non era l’effetto di una propensione “al lutto”. Era la scelta sotto altra forma di continuare la stessa battaglia politica: ovvero il fatto che la coabitazione politica e umana di gruppi culturalmente diversi era possibile, o ancora perseguibile. Comunque, era una battaglia degna di essere ancora combattuta e non abbandonata.

Una battaglia che non dimenticava cosa si era vissuto, cosa si era perso e le persone con cui si era provato a mandare la storia un po’ più in là.

Per cui alla fine, pur sapendo come è andata a finire molte volte, ha senso non smettere di pensare che una volta, almeno, potrebbe anche andare diversamente, come il Sisifo che descrive Camus, quando guarda il masso in fondo, e scende per tornare a spingerlo in alto.

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