Storia
La Repubblica inquieta, il difficile dopoguerra
Gli anni che seguono la caduta del fascismo, e fino all’approvazione della carta costituzionale, sono fra i più difficili della storia del nostro Paese e, tuttavia, possono essere considerati decisivi in quanto trovano maturazione, e composizione, tutta una serie di spinte, spesso contrastanti, che si sarebbero potute rivelare esiziali per il futuro dello stato. A questi anni è dedicata l’ultima fatica di Giovanni De Luna, “La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948” edita da Feltrinelli. De Luna per raccontarci, con un linguaggio efficace e capace di coinvolgere il lettore, questo pezzo di storia utilizza, piuttosto che il copioso materiale d’archivio a cui attingere, una lettura che potremmo definire dal basso, dove la fanno da padrone lettere, riflessioni, dichiarazioni pubbliche e private che racchiudono il sentire della gente comune più o meno culturalmente avvertita. Ne esce un quadro desolante, di un Paese in ginocchio, in cui mancavano perfino i generi di prima necessità, dove la povertà, si manifestava nelle forme più aberranti, con una disoccupazione smisurata, segnata dall’assenza di sicurezza pubblica e privata fatta di violenze e abusi. Ed a proposito di violenza, De Luna non tralascia di riportare in primo piano quelle subite dalla popolazione civile quando ancora lo scontro fra tedeschi e alleati era in atto. Alle note rappresaglie, ma non solo rappresaglie, delle forze d’occupazione tedesche, si erano aggiunte vicende che la storiografia ha volutamente trascurato. Ci si riferisce alle cosiddette “marocchinate”, cioè i brutali comportamenti delle truppe di colore francesi, cui si attribuiscono migliaia di stupri di donne, uomini e bambini di cui è emblematico il caso della popolazione martire di Esperia. Di quegli episodi, che hanno trovato una rappresentazione tanto obiettiva quanto drammatica nella “Ciociara” Vittorio De Sica, ben pochi hanno parlato e, anche quando se ne è parlato la minimizzazione è stata la regola. Per dare un’immagine plastica della situazione, De Luna richiama l’immagine dell’alluvione del Polesine, Un Paese devastato e da ricostruire. In una situazione simile aveva senso parlare, come hanno fatto molti, di fallimento dei valori e delle passioni della Resistenza ? In fondo, le cose sono andate nella direzione della “continuità” perché non si poteva fare altrimenti. Esistevano fratture tali, a cominciare da quella storica tra Nord e Sud accentuata dalla situazione in cui si era trovato il Paese dopo l‘armistizio del ‘43, che impedivano di praticare l’idea di una nuova Italia, e tali fratture, che non erano solo economiche ma erano soprattutto culturali richiedevano un forte sforzo di composizione. Né si poteva trascurare il peso che la presenza degli Alleati aveva nelle scelte che si andavano ad operare. Così, il governo Parri, nonostante la forte componente ideale che muoveva l’azionismo a cui faceva riferimento il presidente del consiglio, finì per avviare il processo di normalizzazione che fu continuato e completato dal suo successore De Gasperi con l’assenso anche delle forze di sinistra. Ma c’è da chiedersi, al di là delle grandi aspettative delle minoranze d’avanguardia, se in fondo avvenne, anche per merito delle classi dirigenti non sia stato di per sé un miracolo. Un miracolo che ebbe riferimento in un ceto politico eccezionale oltre che di grande dignità di cui fu espressione manifesta il discorso di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace. In quegli anni il ritorno alla democrazia, che avviene a dispetto delle paure che circolavano di soluzioni autoritarie o rivoluzionarie, si svolse infatti senza traumi paventati, secondo un copione che sembrava già scritto. La partecipazione popolare alle scelte politiche assunse caratteri eccezionali, non per nulla la partecipazione massiccia al voto che si trasformò in festa di popolo, quel sistema che si avviava assunse caratteri che De Luna indica come “democrazia seduttiva”. Il referendum istituzionale, temuto anche per le paure eversive di quanti non erano disposti ad accettare il responso e che, smentendo i timori della vigilia, tutto sommato vide un trapasso dalla repubblica alla monarchia senza traumi di sorta. La Costituente, dove si erano confrontate culture apparentemente incomponibili, nel corso della quale si videro “i partiti rinunciare a pezzi importanti dei rispettivi impianti programmatici e ideologici pur di blindare il testo costituzionale”, fu anch’essa un miracolo. E proprio a questo punto, l’autore si pone una domanda: non è evidente che allora maturò quella che sarebbe divenuta la Repubblica dei partiti, cioè la cosiddetta partitocrazia ? La risposta, diciamo noi confortati dalla lettura di Galli Della Loggia, forse bisogna ritrovarla nella mancanza di un contrappeso necessario, cioè quel senso della nazione che è stato il tallone d’Achille del nostro Paese fin dalla nascita dello stato unitario. Quel vuoto esistente, in un certo qual modo, è stato proprio colmato dai partiti, la nazione si è identificata con i partiti determinandone una legittimazione imprescindibile.
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