Storia
La nostra esistenza sotto il segno della bomba e la (in)coerenza del dubbio
«In quanto terreno filosofico la bomba o più esattamente la nostra esistenza sotto il segno della bomba, perché questo è il nostro tema, è un terreno assolutamente sconosciuto; per cominciare dunque dovremo vagare a caso e accontentarci di osservare e di annotare i particolari che più ci colpiscono, in un primo tempo la loro successione sarà casuale e il loro nesso rimarrà oscuro. Ma procedendo via via la natura del terreno cambierà e varie cose si mostreranno l’una o l’altra anche da lati diversi, altre forse già in un nesso provvisorio.»
Günther Anders, L’uomo è antiquato, Vol I, Bollati Boringhieri, p. 221.In un libro del 1980, il filosofo ebreo tedesco Günter Anders parlava di questa terra incognita negli anni ’60, intitolando il capitolo del libro citato La nostra cecità dinanzi all’apocalisse. Alcuni articoli tra i più sensibili a questo mood, che mi sia capitato di leggere (ad esempio questo di Piero Ignazi e questo di Anne Applebaum) ma anche questa intervista di Jeffrei Sachs letta stamattina mi suggeriscono che la rigidità di certe posizioni assunte, anche da noi stessi, in coerenza coi nostri valori precedentemente professati, ci portano in un Slippery slope, la fallacia della china scivolosa, o brutta, nella quale sembra che si sia condannati a testimoniare attoniti e sonnambuli al compiersi di un meccanismo automatico («il mostruoso») che conduce alla catastrofe.
Ma la rigidità di fronte alla realtà è tipica di certi meccanismi nevrotici oppure, di converso, del discorso retorico e propagandistico della politica bellica. Il vero pensiero che è dialogo della coscienza con sé stessa di fronte agli eventi, è quello di una continua rimessa in questione, dubitante e problematica, di precedenti convinzioni e identificazioni del sé, del noi (la patria, la civiltà occidentale) in quelle che si rivelano soltanto gabbie in cui la nostra maschera esterna, che prima aveva forse avuto una qualche parvenza di senso, non ha più ragione di esistere, deve dissolversi per farsi responsabilità. Siamo chiamati infatti, proprio in base a questo meccanismo di riflessione che è l’autentico pensiero, a rimettere costantemente in questione quello che poteva sembrarci scontato anche solo il giorno prima, anche solo un mese o due mesi prima, o all’inizio della guerra, e questa démarche è davvero il senso di quella che Aristotele chiamava phronesis, cioè la capacità di saggiare alla luce dei principi la scelta pratica e di compierla in base a questo esercizio di saggezza. La rigidità non serve se non al dispositivo propagandistico e bellico, e conduce al perpetuarsi della follia, della guerra, dell’impasse, ma se vogliamo veramente cercare una via di composizione dei conflitti dobbiamo rinunciare anche alla nostra principale identificazione del sé con sé, del sé con la Patria, i Diritti, i Valori astratti, i principi non negoziabili, etc., quella identificazione che ci fa essere falsamente coerenti con quanto credevamo in un altro contesto, in modo astratto, ma si rivela ora del tutto arida, del tutto priva di senso, orientamento e spessore dinanzi a quanto stiamo vivendo (e rischiando). E quindi i dubbi siano benvenuti, perché soltanto il dubbio coltivato in noi stessi alla luce degli eventi che via via si svolgono – in un contesto in cui non c’è niente di determinante e scritto in anticipo, nell’alea della contingenza che da Croce, Popper a Applebaum è la storia, che a ogni minuto può mutare il corso e il destino individuale e collettivo – può aiutarci a decidere nel nostro ‘piccolo’, e può aiutare a decidere nel loro ‘grande’ coloro che hanno l’ enorme carico di responsabilità dei destini del mondo. Ovviamente non riesco a essere più chiaro di così, la materia è estremamente delicata e invano una logica potrebbe imbrigliarla all’interno di schemi binari, ternari (dialettici) o come dir si voglia. Il paradigma della phronesis mi sembra il più adatto all’ora presente, la capacità di discernere di volta in volta il bene dal male; appunto in questo “(buon) senso comune”, secondo Hannah Arendt, consiste la nostra facoltà di pensare, ovvero quella del kantiano Giudizio. Pensare non è conoscere, pensare è quel vento sottile che sa di volta in volta distinguere il bene concreto dal male concreto; e la tentazione di costruire un’ipostasi di male assoluto e di bene assoluto può impedire la scelta più concretamente giusta. Il fatto che viviamo «sotto il segno della bomba», e cioè in una permanente spada di Damocle – carica di angoscia – dell’annichilimento di noi all’interno della specie umana, deve indurci a riflettere, con timore e tremore, nel silenzio, corrispondendo ai dubbi, ai timori, alle preoccupazioni che viviamo delle scelte e delle posture che abbiamo da assumere, anche pubblicamente. La coerenza di una ragione astratta – nel tempo della bomba atomica – non ci aiuta più, e nemmeno, forse, ci aiuta quella pur bella formula di Romain Rolland a Antonio Gramsci de «pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà». Tutto può accadere nella storia, solo il passato è certo, ma nella phronesis è aperto qualunque possibile futuro: è camminando che si apre il cammino. Anche quello della pace.
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