Storia
La menzogna come pratica politica dei fascismi
La menzogna è vecchia quanto la politica e del resto, la subordinazione della verità alla politica è un elemento centrale della modernità. E allora perché Federico Finchelstein, a ragione, sottolinea e insiste nel sostenere che da Hitler a Mussolini, i capi dei regimi fascisti hanno fatto della menzogna la base del proprio potere?
Perché, scrive, “i fascisti pensavano che le loro bugie fossero al servizio di semplici verità assolute che in realtà erano falsità ancora maggiori” per cui quella delle loro menzogne non rientra appunto nelle regole non scritte, ma diffusamente praticate, della politica moderna e contemporanea, ma è una storia a sé che come tale merita un capitolo proprio, distinto, rispetto alle pratiche consolidate della menzogna in politica.
Questa unicità sta In due principi.
il primo. Quello che si potrebbe chiamare il codice fondamentalista di un apparato ideologico.
Il secondo riguarda il modo stesso di intendere la distinzione tra vero e falso. Per cui il falso non è il contrario del vero, ma solo ciò che ostacola la realizzazione del progetto politico.
Il primo modello è proprio ei si incarna nella costruzione di tutte le élite politiche fasciste co ovvero la definizione di una classe politica come “ordine” religioso. È il principio che si incarna nel modello della Guardia di Ferro romena di Corneliu Codreanu ovvero la definizione di un nucleo spirituale che si propone come incarnazione della verità della fede (lo stesso percorso caratterizzerà la definizione culturale delle SS, del movimento rexista in Belgio, delle molte forme di collaborazionismo ideologico che caratterizzano i movimenti fascisti nell’Europa nazificata tra fine anni ’30 e 1944.
Tutte realtà che si rappresentano come il tutore ideologico e spirituale del movimento e allo stesso tempo detengono e controllano il sistema di governo.
Il secondo principio è quello rappresentato dalla logica del fascismo italiano che si definisce non solo in alternativa ma specularmente in opposizione alla democrazia prima ancora come pratica di governo come principio logico di argomentazione. Se il principio culturale della democrazia è un continuo confronto e contrapposizione fra verità e menzogna, fra piattaforma di ciò che è certo e nel confronto continuo con credenze erronee o informazioni infondate cui la pratica del confronto e della verifica consentono una progressiva affermazione della verità, nella pratica del fascismo la verità non è nella dimostrazione della fallacia delle opinioni e delle convinzioni contrarie, ma nell’azione che consente alla propria verità di acquisire ed esercitare predominio.
I seguaci delle ideologie fasciste credevano ad ogni affermazione del capo, ritenendolo una sorta di incarnazione della verità stessa. E così Finchelstein conclude che nel fascismo è l’idea stessa della verità empirica ad essere messa in discussione. Ovvero: la verità non corrisponde a ciò che si vede, ma a ciò che si crede.
Profilo interessante che mette da una parte la articolazione del potere e che privilegia il rapporto masse-capo. Ma un meccanismo che proprio perché il nodo problematico a cui tenta di dare una risposta risiede nel legame tra capo e masse, prima ancora che in una definita teoria e normativa del sistema politico che quelle formazioni intendono realizzare, non può non chiedersi se quel paradigma non sia finito a metà del ‘900, ma abbia anche altre possibilità di tornare nell’epica dei nuovi populismi. Percorso che in effetti Finchelstein non evita confrontandosi sui principi, sui meccanismi di convinzione, di mobilitazione che riguardano i populismi e gli autoritarismi di massa oggi più radicali: il Brasile di Bolsonaro, l’Ungheria di Órban, la Turchia di Erdogan, l’India di Modi, la Russia di Putin e non ultimo gli Stati Uniti di Donald Trump. Il problema non è tanto loro natura o la loro durata, se si possibile o no invertire il percorso, ma i costi che quelle realtà e quelle esperienze lasciano sul campo e i tempi per uscire dalla forza del loro campo magnetico.
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