Storia

La memoria si nutre di oblio

12 Giugno 2019

Con Sette modi di dimenticare, Aleida Assmann,  a venti anni di distanza dal suo Ricordare, torna a chiederci di riflettere non solo su cosa si dimentica e perché (ma anche, alla rovescia, su ciò che si ricorda e perché) ma sulle procedure che sovrintendono questo esercizio di definizione di sé (individuale e di gruppo).

Il tema potrebbe essere inteso come parte dell’attività di ciascuno in relazione col passato, ma lo scenario qui, in Europa, con la forza di attrazione che hanno avuto i neonazionalismi, appare meno “innocente” di un gioco di memoria di società.

La relazione tra identità e ricordi è tornata di grande attualità da tempo. Il segno più evidente è la passione per la “storia”. Per “storia” non intendo l’accezione disciplinare del termine – ossia lo studio scientifico del passato condotto sulla base dei metodi e delle procedure accreditati da una disciplina scientificamente fondata – ma la coscienza collettiva. La storia, in questa accezione, è «il passato che si ricorda». Nella congiuntura aperta con l’89 quella ansia di passato ha assunto una dimensione definita dalla mobilitazione politica.

Non solo. Se il problema della ricostruzione del passato a lungo si è posto come procedura per dare un volto e una fisionomia alla propria idea di emancipazione, oggi il problema del passato è diventato dare forma e volto alla propria identità. Per cui ci autodefiniamo attraverso quanto ricordiamo e dimentichiamo collettivamente. Neconsegue che  ridefinire chi siamo, dare una fisionomia a ciò che chiamiamo “nostra identità” è costruire e ricostruire una memoria nuova. Per chiarezza, preferisco chiamare questa costruzione con un termine diverso: ricordo.

Dunque, in prima sintesi: il ricordo è la somma e il combinato disposto di memoria e oblio. Ovvero: dimenticare non è l’opposto di ricordare, bensì complementare e contiguo. Non solo: l’oblio non è una consizione statica, ma una procedura dinamica.

La memoria, quella degli individui come quella delle società, è fatta non solo da quanto si ricorda ma anche e indissolubilmente da ciò che si dimentica.

Ma perché e come si dimentica? Nelle sette forme elencate da Aleida Assmann l’oblio gioca un ruolo che può essere volta a volta positivo o negativo, ma sempre comunque fondamentale per organizzare il passato in memoria attiva e vivente di una collettività.

Aleida Assmann a partire da questo assunto indica varie procedure del processo del ricordo (fondate tutte non su ciò che si ricorda, ma sulla parte di liberazione, su ciò che si scarta). Per ciascuna conia anche una categoria, procedura molto utile, perché essenziale per tentare di fare una mappa delle mosse  dell’oblio. Nell’ordine:

1. Dimenticare automatico. Indica quella che Aleida Assmann chiama la normalità del mondo sociale e culturale. Ovvero: dimenticare, scrive “è la modalità fondamentale della vita umana e sociale”.  È una modalità, precisa, che si impone nel tempo dello sviluppo all’infinito, ovvero del progresso inesauribile. La modalità cambia radicalmente nel tempo del riuso, ne tempo del recupero. Da questo punto di vista, forse senza che ce ne siamo davvero accorti la richiesta di una dimensione del contenimento fondata sul principio della sostenibilità, include anche un cambiamento radicale e un rovesciamento delle nostre capacità di memoria, obbligandoci a ripensare.

Alla vetrina di un quartiere berlinese di Kreuzberg, scrive Assmann si può leggere questo cartello “Buttare era ieri; riciclare, riparare, trasformare è oggi”. Significa che ciò che imporne il riciclo è un rallentamento della corrente del dimenticare. Ridare una chance all’usato on al vecchio, equivale a rimettere in discussione la procedura propria del dimenticare automatico.

2. Dimenticare conservativo. Indica quella condizione che accantona senza predisporre un uso. Gran parte dei patrimoni librari sono il risultato di questo tipo di azione. La riscoperta improvvisa di testi nasce dal fatto di averli conservati un tempo, peraltro senza attribuire loro valorem e poi nel riscoprirli e valorizzarli improvvisamente. Ciò definisce un’idea di archivio strutturalmente diversa da quella s che costruisce Foucault ne L’archeologia del sapere. Se per Foucault archivio è quella procedura che lentamente si costruisce nel tempo e che a un certo punto definisce un contenuto tale da consentire di individuare una genealogia dei fenomeni (sociali, mentali, culturali,…) la dimensione del dimenticare conservativo dice più che altro della possibilità casuale di ritrovare fonti, documenti, risorse dal passato. “In archivio, scrive Assmann, i documenti esistono in uno stato di latenza, in una condizione di attesa tra i tempi”.

3. Dimenticare selettivo. La memoria è una selezione in nome di un fine. Nietzsche l’aveva fissato in un aforisma bruciante, quando in Al di là del bene e del male scrive «‘Ho fatto questo’, dice la mia memoria. ‘Io non posso aver fatto questo’ dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine ad arrendersi è la memoria». La sfera dell’azione, in nome della coerenza sostenuta da chi agisce è fiondata sulla selezione, sull’accantonare e dimenticare i gesti, le parole, gli atti che propongono incoerenza o che indicano problematicità. Ovvero ricordare è una scelta, più spesso un’operazione che non riguarda il singolo individuo in autonomia, ma l’individuo dentro al suo gruppo, o al gruppo sociale cui fa riferimento.

4. Dimenticare repressivo. È l’operazione contraria a quanto indicato nel Dimenticare conservativo. Qui dimenticare è parte di un progetto e ha per fine la costruzione di un universo coerente. L’esempio più classico è l’azione di Winston Smith, il protagonista di 1984, di George Orwell, impegnato costantemente a riscrivere il presente perché si possa dare un volto coerente al passato, ma anche una dimensione controllata verso il futuro. Oppure è il rogo dei libri a Berlino il 10 maggio 1933, una scena che nel ‘900 si è ripetuta il 25 agosto 1992 quando le truppe serbe bombardano la Vijećnica, la grande biblioteca a Sarajevo. L’idea è sempre che si conserva solo il sapere che qualcuno considera degno di restare, mentre quello ritenuto non degno, perché contrario ai propri principi, o in contraddizione con la propria idea di mondo, lo si colpisce e distrugge.

5. Dimenticare difensivo. È quell’atteggiamento in cui il sapere non entra tra le cose dette perché ci sono troppi tabù da rompere. È accaduto per la memoria della Shoah, di cui è stata necessario che corresse il tempo di una generazione perché quelle storie di violenza acquisissero cittadinanza e potessero essere dette. Ma è accaduto, più recentemente, per le storie di stupro e di violenza avvenute all’interno della Chiesa cattolica e che solo di recente, a cominciare da coloro che hanno subito le violenze sul proprio corpo, hanno trovato il modo di parlare. Non si trattava in tutte e due i casi solo di trovare le parole, ma anche di sapere che le proprie parole non sarebbero cadute senza essere raccolte, ascoltate, condivise. Il lungo silenzio non era l’oblio, ma era l’impossibilità o la non capacità di trovare le forme per dire delle parole e per saperle articolare in pubblico.

6. Dimenticare costruttivo. È la dimensione che caratterizza l’atto di Sisifo descritto da Albert Camus. Il momento della sconfitta e la capacità di riprendere la strada iniziale. È la condizione per la quale solo recentemente si è trovata la parola per descrivere quella scelta, Resilienza. È significativo che quella parola sia divenuta virale solo nel tempo presente. Indica che quel passaggio è il risultato di un processo culturale che solo di recente ha trovato le orme e i modi per esserci.

7. Dimenticare terapeutico. Riguarda quel processo volto alla riconciliazione sulla base della consapevolezza, dell’assunzione del carico di dolore o di problematicità rappresentato da ciò con cui ci si sta consapevolmente confrontando. È la pratica sperimentata in Sudafrica con i tribunali della Truth and Reconciliation Commission. Un processo che non cancella ciò con cui si tratta di fare i conti, ma ne depotenzia la carica emozionale. Una pratica fondamentale soprattutto per quelle realtà sociale attraversate da profondi elementi di divisione, ma decise a superare il proprio trauma provando a ricomporre un quadro infranto.

Non l’oblio consente il superamento di questa condizione, ma il riconoscimento del torto subìto o inflitto e la sua memoria come momento rifondativo di un patto condiviso.

È importante questa distanza dall’idea di oblio e l’insistenza sulla categoria di riconoscimento proposta da Avishai Margalit nel suo L’etica della memoria.

Viceversa, l’oblio, l’altra parte del processo di «costruire memoria» – sembra suggerire Assmann – non è solo dimenticanza, o diserzione da un dovere. Può anche essere una macchina generativa della nostra capacità di costruire sapere e, perciò, la condizione che consente di sorprenderci, di proporre nuove strade, di provare nuove emozioni. In una parola di vivere.

 

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