Storia
Perché è così difficile affrontare la storia degli anni del terrorismo?
Il 9 maggio – il “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi” – è una ricorrenza della Repubblica Italiana che è entrata nel calendario istituzionale ma stenta complessivamente a far parte di un sentimento pubblico.
Si potrebbe osservare come questo in parte sia il destino di tutte quelle scadenze memorialistiche che lentamente negli anni hanno occupato lo scadenzario pubblico – soprattutto quello scolastico. In parte è anche così. Anche se poi occorre anche dire che non per tutte è stato così: il 27 gennaio ha avuto un peso più forte, lo ha avuto più del “Giorno del ricordo” (10 febbraio) dedicato all’espulsione e all’esodo degli italiani in terra d’Istria e del “Giorno della libertà” (9 novembre) dedicato al crollo del Muro di Berlino.
Indipendentemente da quanto dureranno, è un fatto che la loro forza non consiste nella vicinanza o meno con ciò che singolarmente evocano oppure nel loro coinvolgerci direttamente nella storia nazionale.
Perché dunque il 9 maggio è una data che non è entrata nello spazio pubblico? Dove risiede la difficoltà e che tipo di problemi apre quella scadenza? Perché, in breve, su un periodo e in merito a una questione cruciale che ha segnato, diviso, e attraversato la nostra storia contemporanea noi non siamo in grado di definire una sensibilità pubblica?
Intorno alla questioni del terrorismo e delle stragi in Italia non è vero che non si sappia niente, come molti hanno sostenuto, anche sulla base delle sentenze giudiziarie che dopo infinite inchieste hanno mandato sostanzialmente assolti (p.e. per le vittime di Piazza Fontana) tutti gli imputati.
È esistita e ha lavorato una “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” (meglio nota come “Commissione stragi”) che è pervenuta a risultati di tutto rispetto, ma che non ha prodotto conclusioni definitive. Nella riflessione del suo Presidente – il Senatore Giovanni Pellegrino – ciò è anche conseguenza delle reticenze. Come dice in Segreto di Stato (Sperling & Kupfer, p. 260) “sia la destra, sia il centro di Forza Italia, sia la sinistra postcomunista avevano in definitiva alle spalle una storia indicibile con cui non volevano o non potevano ancora fare fino in fondo i conti”.
Una condizione che secondo Pellegrino è ovviabile se si intraprendesse una via simile all’esperienza sudafricana della “Commissione verità e riconciliazione”, ovvero se si scegliesse un percorso il cui fine è il riconoscimento di una comune identità nazionale. Un processo che a detta di Pellegrino avrebbe il merito di non coinvolgere il paese in una trama inestricabile di rancore e vendette, ma anche in quello di offrire un ruolo da primi attori a coloro che avevano subito torti e violenze.
“Mentre nei processi tradizionali infatti i protagonisti sono sostanzialmente gli imputati e i giudici, in quel caso al centro dell’esperienza era la voce di chi aveva subito l’ingiustizia dei più forti. Al di là dunque del recupero delle tante verità nascoste, le sedute della Commissione rappresentavano anche una sorta di rito liberatorio per chi aveva creduto che il giorno del riscatto non sarebbe forse mai giunto e, paradossalmente, anche per molti degli stessi carnefici che potevano finalmente fare i conti con le proprie colpe” (ivi, p. 282)
Perché è così difficile affrontare la storia degli anni del terrorismo?
Che cosa implica proporsi di scriverla?
Il problema è quali temi è necessario indagare per affrontare una storia del terrorismo che non sia solo una serie “piccante” di storie. All’origine di quella difficoltà stanno dunque alcune questioni di carattere generale. Provo a elencarne alcune.
Noi siamo ancora immersi dentro a quella storia. Ovvero siamo ancora mentalmente ed emotivamente dentro una vicenda e alle scelte di schieramento e di appartenenza che quella stagione imponeva. Ragion per cui scriverne la storia è ancora percepito e vissuto come un modo di dimostrare la fondatezza delle opinioni e dei sentimenti di allora. Questa è una questione che necessita che passi del tempo, ovvero che si consumi una generazione. È una vecchia questione che riguarda qualsiasi riflessione sulla storia, ma soprattutto riguarda un’epoca come la nostra in cui l’uso politico del passato definisce e costruisce l’identità pubblica.
Per scrivere una storia in cui sono implicate non solo alcune parti politiche – per quanto topograficamente dislocate sull’intero asse destra-sinistra – ma sono coinvolti anche segmenti rilevanti o comunque non secondari degli apparati dello Stato, lo Stato deve appunto dichiarare che rinuncia lui, in prima persona, a scrivere quella storia. Ovvero che abbandona la pretesa che sia lo Stato a raccontare lo Stato. Questo, per esempio implica una politica della gestione dei documenti, della loro declassificazione, dell’apertura dei dossier che non ha mai coinvolto le pratiche dell’amministrazione pubblica o delle istituzioni nella storia italiana (a differenza di una realtà come quella statunitense dove i tempi di declassificazione dei documenti, consentono lo sviluppo di una riflessione pubblica, che non passa solo nei libri di storia, ma si fa prodotto di massa attraverso la cinematografia, forse il veicolo di acculturazione più potente attraverso il quale negli ultimi quaranta anni sono state raccontate e ricostruite le diverse vicende dell’attualità politica e sociale).
Il vero non è deducibile solo dalle carte archivistiche o dagli archivi, ma intorno alle carte d’archivio è possibile definire il “certo”. C’è un rapporto intrinseco tra “archivio” e segreto conoscibile solo dal segretario del principe su cui si struttura una trattatistica intorno all’antropologia dell’uomo di Stato moderno (in gran parte collocata nella storia italiana nella costruzione e definizione del’ uomo barocco) su cui ci sarebbe da riflettere a lungo. L’archivio risulta così essere una delle fonti essenziali e imprescindibili del Principe, talora, nella figura del segretario, anche superiore, comunque sovrastante la figura del Principe. Nella nostra “età attuale” i limiti degli accessi agli archivi hanno assunto una doppia motivazione: la tutela dei segreti di Stato – i quali, finché esisteranno gli Stati non è pensabile che scompaiano – e il rispetto della privacy dei cittadini. In breve i segreti che proteggono il principe dai cittadini e i segreti che proteggono i cittadini dal principe, nonché dagli altri cittadini.
Occorre considerare la “geografia” del terrorismo in Italia. Ovvero la necessità di indagare studiare non il fenomeno solo in relazione all’organizzazione, ma al suo radicamento e continuità sul territorio. Il terrorismo e la lotta armata non sono state equamente distribuiti sul territorio nazionale, hanno riguardato specifiche aree del paese, in alcuni luoghi hanno avuto altre intensità – p.e il Triveneto, Genova, Torino, o Milano, o Roma – e dunque ricostruirne la storia è anche occuparsi non solo di una storia delle teorie politiche astratte, ma anche della storia sociale mentale e culturale di aree specifiche del Paese. In breve di affrontare una serie di “storie locali” a partire dalla questione della lotta armata e del terrorismo.
Storie di vita delle vittime e dei loro famigliari. Da una parte è vero che essi sono state attori passivi e “giocati” in una vicenda che spesso li ha visti poi esclusi nella scena della memoria pubblica successiva; dall’altra è anche vero che non costituiscono una massa omogenea e compatta. Anche limitandosi alle narrazioni autobiografiche raccolte da Giovanni Fasanella e Antonella Grippo ne I silenzi degli innocenti (Bur, 2006), risalta che la memoria del loro vissuto diverge, e che al di là del dolore e delle ferite che li accomunano, poi ciascuno è entrato ed è uscito da quella storia in relazione alla proprie convinzioni precedenti, alla storia famigliare, alle idealità politiche cui si sentiva legato, all’ambiente culturale in cui dopo ha avuto modo di tornare a riflettere.
Nella stagione che succede al ’68 – la militanza politica ha un carattere diverso da quella che la precede. Se nel corso del ‘900 il militante politico risponde a una domanda di bisogno e la scelta della propria famiglia politica riguarda che cosa si investe in termini di adesione in relazione alle domande che si hanno, a partire dal ’68 la militanza politica – ma anche quella nel volontariato o nel sociale – corrisponde a un “desiderio”. Non le questioni di vita materiale danno corpo a quella scelta, ma la proiezione del domani. È anche per questo che la sconfitta che passa con il terrorismo e dopo la sconfitta della lotta armata produce un esito diverso anche in chi quella scelta non ha condiviso – tanto a destra come a sinistra, e tuttavia non riesce a uscire da una condizione di orfanità della politica. Appunto perché quell’esperienza non corrispondeva a un bisogno e dunque non si misurava sulle cose ottenute, sui risultati mancati o sui compromessi, ma si fondava sul desiderio, sull’immaginario. Viveva dell’investimento emozionale. Il dopo non è così che banalità, rientro nella normalità. Una condizione in cui quella dimensione di vissuto “superomistico” deve fare i conti – laicamente – con la propria parzialità, anche con la presa d’atto dei propri limiti. Una dimensione con cui nei fatti nessuno si è ancora misurato.
Anche per tutto questo, ma altre questioni si potrebbero individuare, quella domanda di storia è ancora molto lontana dalla nostra quotidianità e, probabilmente, non ha trovato la via, le risorse umane e intellettuali, e la chiarezza culturale per essere finalmente imboccata. E forse è destinata, come molte altre date memorialistiche, a declinare e a spegnersi dopo “l’ultimo testimone” che nel nostro caso spesso è giocata su una dimensione diabolizzata delle figure che popolano le storie di terrorismo. Un altro aspetto che anziché demistificare l’aura del potere – come probabilmente sarebbe auspicabile che contribuisse una seria e documentata indagine storica – ne amplia e ne enfatizza l’aspetto “luciferino”, perverso, “fascinatorio”.
L’effetto è che invece di contribuire a una comprensione di un fenomeno se ne accentua la natura di religione politica, se ne enfatizzano gli aspetti rituali o “oscuri”, si incrementa la dimensione complottista o “controfattuale”, comunque non razionale del rapporto tra individuo e potere.
Tutto il contrario di un rapporto democratico tra cittadino e cosa pubblica.
Devi fare login per commentare
Accedi